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A Bob Dylan, per i suoi 80 anni

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Clown sublime, straniero in terra straniera, profeta in patria, esule dai cinque continenti, vagabondo delle stelle.

Nato su Marte, ma più umano di qualsiasi essere umano che abbia mai calcato la terra e navigato i mari di questo dannatissimo pianeta, Bob Dylan fa fuso orario a sé, produce il suo whisky e apparentemente se ne frega.

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La leggenda narra che batta persino una moneta che, recante il suo profilo spigoloso, perplesso ed enigmatico, può essere spesa in qualsiasi luogo del passato, del presente e del futuro.

Il suo cuore contiene moltitudini

Quest’uomo di molte contraddizioni e di molti umori indossa sempre una maschera, ma la sua autenticità emerge e deflagra proprio a causa di quella maschera. Come Hans Schnier, il clown dalla coscienza cristallina e dall’anima color ruggine, che Heinrich Böll ha pennellato per rappresentare la natura infida, ipocrita e disumanizzante della rimozione.

“Mi contraddico, sono vasto, contengo moltitudini”, canta lui stesso citando Whitman. Quando accetti questo come punto di partenza significa che non hai intenzione di rimuovere nulla e puoi, quindi, accogliere ogni cosa all’interno del contenitore che è il tuo spirito. E, se sei Dylan, questa roba qui, puoi rimandarla all’esterno con una potenza che non ha eguali, la potenza degli ossimori che non si annullano a vicenda, ma che, invece, si sommano e si moltiplicano fra loro.

Se per gli U2 la formula del rock è “uno, dos, catorce” e per Springsteen è “one plus one equals three”, per Dylan qualsiasi numero moltiplicato per zero non fa mai zero e qualsiasi numero sommato a zero non rimane mai uguale.

“Ho aperto il mio cuore al mondo e il mondo è entrato”, dice sempre lui. E il cuore, anche se apparentemente se ne frega, perché sembra così fuori portata e irraggiungibile, è ancora aperto, anche se i paraggi sono chiazzati del colore della ruggine. Ma, se entri, preparati ad essere impreparato. Oggi come sessant’anni fa.

In cammino nel mondo

Lo zio Bob si è caricato sulle spalle l’eredità combattiva di Woody Guthrie e il bagaglio di tristezza del blues e si è messo in cammino.

Da allora, non c’è luogo in cui non sia stato, strada che non abbia percorso, sentiero che non abbia aperto, fabbrica, postribolo o monastero che non abbia visitato, degradazione o ingiustizia che non abbia segnalato, piazza che non abbia bazzicato, fogna della quale non abbia respirato gli effluvi pestilenziali o bellezza che non abbia scovato e portato alla luce, pozzo nel quale non sia precipitato e dal quale non sia, poi, risalito.

Quando tutti lo volevano vedere con la chitarra acustica (e imbalsamarlo in quella posa a loro uso e a suo consumo), ha preso quella elettrica, quando il pubblico, per questo lo fischiava, suonava più forte.

Ha cercato il silenzio dopo aver scatenato un putiferio, ha scavato nella tradizione dopo aver sbrigliato una rivoluzione e ha sempre avuto la faccia di quello che voleva prenderti a pugni quando in realtà voleva abbracciarti (e viceversa).

Ha parlato per se stesso e per la sua generazione

E’ andato contro un’altra generazione e ha smentito il suo passato. Ha accusato crisi creative, messo in scena spettacoli penosi, ma ha sempre tirato fuori una perla, anche quando non aveva niente da dire o lo diceva male.

Ha piazzato una canzone d’amore come “Sara”, “Sad-Eyed Lady of the Lowlands” o “Isis” quando tutti volevano che fermasse la guerra, ha formato una serie di epigoni (di talento e non) senza l’intenzione e la voglia di essere un maestro, ha guardato dentro l’abisso e si è lasciato scrutare a sua volta.

Bob Dylan è…

Bob Dylan è Shakespeare perché ha fatto per la musica ciò che il Bardo ha fatto per il teatro: ne ha scritto e riscritto la grammatica e la sintassi, creando nuove declinazioni e ulteriori coniugazioni.

Bob Dylan è Dylan Thomas perché ci ha mostrato che è vero che “la morte non avrà più dominio”, che “le teste di quei tizi, benché morti stecchiti, martelleranno dalle margherite e irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà”. E, anche allora, la morte non avrà più dominio, perché la vita assumerà una nuova fisionomia e lui stesso tornerà un giorno come quei fili d’erba che accarezzava Whitman.

“È come dare una medaglia all’Everest perché è la montagna più alta del mondo”, disse Leonard Cohen a proposito del Nobel allo zio Bob.

Dylan è Lev Tolstoj, è Anthony Trollope, è Israel Joshua Singer perché, come loro, ha mostrato la vita in ogni sua accezione, in tutti i suoi passaggi, negli snodi fondamentali e nei rituali che ne segnano le tappe, riuscendo a mettere a fuoco quel filo invisibile che unisce l’individuo alla collettività o che con la collettività lo fa collidere.

Nonostante lo definisca come uno dei due acerrimi nemici dell’umanità (l’altro è Marx), Dylan è anche Freud, perché ha esplorato i tre piani della mente umana e le infinite maniere in cui essi si combinano fra loro o il modo in cui uno prevale o tiranneggia sugli altri due. Pulsioni pure, coscienza mediatrice, il bene e il male.

Dylan è un enigma affascinante – afferrabile ora, inafferabile subito dopo -, è il Kaiser Soze delle nostre coscienze più cristalline e delle nostre malefatte più luride, è un incendio di consapevolezza, una dichiarazione d’amore senza confini, una porta aperta sul futuro, sul presente e sul passato, è l’alba dentro l’imbrunire e l’imbrunire dentro l’alba che non abbiamo ancora notato, è l’angolo in cui non abbiamo ancora guardato e la domanda che non ci siamo ancora posti.

“La risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto è 42”, scrive Douglas Adams nella sua “Guida Galattica per gli Autostoppisti”. O è 42 o è Bob Dylan. Solo che la risposta contiene un’altra domanda.

Giovanni Berti

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2 COMMENTI

  1. Bellissima-mai letto una pagina cosi bella e breve su Dylan -contiene un’pò le moltitudini di libri e articoli scritti su di lui- ed è esagerata come deve essere—-perchè lui è Dylan—

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