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Francesca Vigevano, 27enne, la prima romana vaccinata in USA

27 anni, diplomata al Farnesina e laureata al Campus Bio-Medico, oggi lavora a Houston. Ed è la prima romana a esser stata vaccinata...

Francesca Vigevano
foto di Francesca Vigevano da suo profilo facebook
Duca Gioielli

Non sarà forse la prima italiana in assoluto ad aver ricevuto il vaccino anti Covid oltre frontiera – anche se lei ne sarebbe davvero felice perché vorrebbe dire che anche altri sanitari italiani nei giorni scorsi sono stati vaccinati – ma ci sono davvero pochi dubbi che possa essere stata invece la prima romana vaccinata in USA.

Lei si chiama Francesca Vigevano, ha 27 anni e lavora come Clinical Research Coordinator in ambito COVID-19 al Texas Medical Center di Houston.

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Quando venerdì scorso ha ricevuto il vaccino contro il Coronavirus Francesca si è sentita sollevata, felice per aver compiuto un passo in avanti in questa lunga battaglia che lei stessa ogni giorno affronta in prima linea.

Vorrei dire tante cose in questo momento per provare a spiegare la felicità, il sollievo e quel venticello che sa di speranza che sento. Però io sono de Roma e c’è solo una parola adatta: daje!” – ha scritto pochi giorni fa sui social sotto una foto che la ritrae proprio nel momento della somministrazione.

Francesca è cresciuta a Roma Nord. Dopo il diploma conseguito al Liceo Farnesina si è laureata in Scienze dell’Alimentazione e della Nutrizione Umana al Campus Biomedico e poi il grande salto in America.

Subito dopo la laurea magistrale lavoravo nel laboratorio del Dipartimento di Endocrinologia e Diabetologia del Campus Biomedico di Roma; un giorno il mio professore e mentore ci disse che si era aperta una posizione da ricercatore a Houston e ci invitò a fare domanda. Mi sono fatta coraggio e ho mandato il curriculum” – racconta Francesca alla redazione di VignaClaraBlog.it che ieri l’ha raggiunta telefonicamente.

Così ad agosto di due anni fa si trasferisce a Huston e inizia a lavorare nel privato. Francesca però oltre alla sua specializzazione ha un’altra grande passione e visto che il coraggio non le manca va avanti per la sua strada e quando arriva la pandemia cambia e passa alla sanità pubblica.

Sono una biologa nutrizionista e lavoro come ricercatrice; da sempre però nutro un grandissimo interesse per lo studio delle malattie infettive, in particolare quelle per cui c’è un coinvolgimento della sfera metabolica, per esempio l’HIV. Così dall’endocrinologia sono passata alle malattie infettive, pur mantenendo un legame fra le due discipline, e quando è arrivato il Coronavirus sono diventata coordinatrice di ricerca clinica in ambito COVID -19”.

Francesca è davvero entusiasta di essere stata tra i primi ad aver ricevuto il vaccino, un’arma indispensabile per chi come lei è un “front line worker”, un lavoratore in prima linea. Medici, infermieri, operatori socio sanitari, ricercatori, un esercito di persone che ogni giorno dall’inizio della pandemia si prende cura del prossimo e lo fa bardato come un palombaro.

“Lavorare indossando tutti i dispositivi anti contagio è davvero scomodo, oltre che alienante. Immaginate di fare il vostro lavoro chiusi in un sacco di plastica, con le mani, il naso e la bocca coperti – spiega Francesca – Gli occhiali fanno male e lasciano i segni, fa caldo, manca l’aria. Non esistono distrazioni, ore e ore completamente mascherati”.

Ma non è tutto, per Francesca c’è qualcosa che pesa ancora di più che una tuta anti-covid ed è l’assenza di contatto umano con il paziente. “È la cosa che più mi fa stare male, un malato viene in ospedale per essere aiutato e noi lo riceviamo così, non possiamo stringergli la mano, accarezzarlo, a mala pena riesce a vedere i nostri occhi, è tremendo”.

È per questo che Francesca, che per il tipo di ricerca che fa è continuamente esposta al virus – e che non ha avuto nessuna reazione dopo la somministrazione del vaccino – è davvero convinta della sua importanza e non ha dubbi che sia l’unica arma che abbiamo per sconfiggere il virus.

Il vaccino che ho fatto protegge non solo me ma anche tutte le persone con cui entro in contatto dentro e fuori dall’ospedale; è un’azione preventiva che protegge noi stessi e gli altri. È altrettanto importante chiarire che gli effetti del vaccino anti COVID-19 sulla popolazione impiegheranno mesi prima di poter essere apprezzati; l’immunità di gregge infatti non sarà raggiunta immediatamente, oltre al fatto che ci sono persone che purtroppo non potranno vaccinarsi. Quindi sì, sarà assolutamente necessario continuare ad adottare tutte le misure di contenimento del virus che stiamo già utilizzando, come distanziamento, mascherina e igiene personale”.

Francesca non torna a Roma ormai da tantissimi mesi, una scelta dovuta non solo agli impegni lavorativi ma fatta anche per tutelare la sua famiglia; scelta rinnovata anche per le festività natalizie che trascorrerà a Huston con il compagno e il suo cane.

Non è solo emozione quella che traspare dai racconti della giovane ricercatrice ma anche gratitudine; nonostante questo però Francesca prova a capire chi tra la popolazione nutre ancora dei dubbi sui nuovi vaccini, dubbi che secondo una ricerca condotta dall’Università Cattolica, riguarderebbero un italiano su due che al momento non sarebbe propenso alla somministrazione.

A non convincere i più secondo lei ci sarebbero i tempi rapidi di produzione e la tipologia di vaccino; solitamente infatti l’intero processo di sviluppo, ricerca e approvazione di un farmaco richiede anni mentre in questo caso è stato molto più rapido.

“Personalmente credo che questo sia dovuto esclusivamente alle circostanze straordinarie di questa pandemia che ha richiesto un lavoro straordinario da parte dei ricercatori di tutto il mondo. Certamente non si è ridotta la qualità della ricerca, ma solo il tempo impiegato delle parti coinvolte che hanno portato a termine un lavoro incredibile. Dovremmo esserne solo molto grati.”

Quando Francesca ci invia l’ultimo messaggio per l’intervista, in Italia è già notte mentre lei ha terminato da poco un’altra lunga giornata di lavoro: “Mi raccomando vaccinatevi, fatelo per voi e per gli altri. È un atto di responsabilità”.

Ludovica Panzerotto

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