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    Alberto Matano a 360 gradi: giornalismo, giustizia ed altro

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    Alberto Matano, volto noto del Tg1 nell’edizione principale, nasce a Catanzaro nel 1972. Durante l’università scrive per l’Avvenire e collabora con Rete News. Dopo la Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia, nel 1998 inizia la sua carriera televisiva prima a Bloomberg Tv e poi in Rai dove, dopo alcuni anni al giornale radio, viene trasferito al TG1 del quale, nel 2010, diventa conduttore.

    È autore e conduttore di “Sono innocente“, docufiction in onda su Rai3, che racconta le storie di persone arrestate ingiustamente. Nel marzo 2018 viene pubblicato per Rai Eri il suo primo libro “Innocenti – vite segnate dall’ingiustizia“, nel quale vengono approfondite le vicende giudiziarie di alcuni dei protagonisti della trasmissione.

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    Lo abbiamo incontrato per un’intervista a 360 gradi su giustizia, giornalismo e molto altro.

    Come nasce l’idea di scrivere il suo libro?

    Stavo lavorando alla seconda edizione di “ Sono Innocente” il programma andato in onda fino a qualche mese fa su Rai3 e che sarà replicato a settembre. Dopo la prima edizione ho capito che avevo bisogno di lasciare traccia delle storie di cui mi occupavo.

    Erano delle storie così potenti che andavano raccontate oltre la televisione, per questo ho deciso di scrivere e per la prima volta in vita mia mi sono cimentato in un esercizio di narrativa che è molto diverso rispetto alla televisione e a tutto quello che avevo fatto fino a quel momento.

    A quale delle dodici storie raccontate è più legato?

    Sono tutte storie che sono entrate dentro di me, che mi hanno segnato, che mi hanno toccato, che ho deciso di raccontare al di là della trasmissione televisiva. Ma ce n’è una che riguarda un cittadino che vive proprio a Roma nord, a Labaro.
    E’ un padre di famiglia che due anni fa vede il terremoto in televisione si precipita in quelle zone per aiutare chi aveva perso tutto. Porta aiuti, viveri e beni di prima necessità, ma finisce in carcere con l’accusa di essere uno sciacallo.

    Questa storia mi ha colpito perché investe lui, la sua famiglia, le sue tre figlie piccole. Per me Stefano Messore è un eroe dei nostri giorni, al quale dico grazie, perché dopo quello che ha vissuto rifarebbe tutto daccapo.

    “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” eppure essere accusato è un segno che resta indelebile.

    L’epoca in cui viviamo fa sì che basti un’accusa,un’informazione di garanzia o solo essere sfiorati da una vicenda giudiziaria per essere considerati automaticamente colpevoli. Ci siamo un po’ dimenticati quelli che sono i principi cardine della nostra Costituzione, la presunzione d’innocenza fino al terzo grado di giudizio.

    Nel libro ci sono persone che sono state condannate nei tre gradi di giudizio, ma che erano innocenti e che per avere giustizia hanno ottenuto la revisione e la fine di un incubo. La lezione che emerge è che non bisogna giudicare a prima vista. Cerchiamo un colpevole a tutti i costi e non consideriamo che potremmo fare del male a chi non ha commesso nulla.

    Quanti sono i casi di errori giudiziari?

    Non ci sono dati ufficiali, secondo alcune stime si parla di un migliaio di casi all’anno e di venticinquemila casi negli ultimi venticinque anni. Molti chiedono il risarcimento, alcuni lo ottengono, altri no e anche questo deve far riflettere. Le persone che vengono  accusate e finiscono in carcere ingiustamente hanno comunque un’esistenza segnata.

    Quali responsabilità hanno i media, pensando ai grandi delitti, sul sentimento popolare?

    I media hanno una responsabilità, è fuori discussione. Tutti noi abbiamo una responsabilità, io per primo che faccio questo lavoro da tanti anni, dopo questo viaggio tra gli innocenti mi soffermo molto più di prima sulle notizie, qualcosa è cambiato dentro di me come uomo e come giornalista.

    Penso che tutti noi dovremmo fare una riflessione attenta, approfondita, responsabile. Con il nostro lavoro possiamo orientare, influenzare il corso della vita delle persone e l’opinione pubblica, quindi la reazione degli altri rispetto a queste vicende. E poi può capitare a tutti!

    E’ quello che insegna il libro, non c’è differenza geografica, culturale, sociale o di età chiunque può finire in un errore giudiziario e vivere un incubo. Basti pensare ad Enzo Tortora che rimane il simbolo dell’errore nel nostro paese di chi è finito in carcere senza aver commesso alcunché.

    L’errore è umano o burocratico?

    L’errore è umano. Nasce dal fatto che siamo delle persone e quindi possiamo sbagliare, questo è il presupposto. Queste storie sono molto potenti, non hanno bisogno dei nomi dei magistrati che hanno sbagliato, hanno una forza talmente grande che non hanno bisogno di commento.

    Sono uno strumento, un mezzo di denuncia, non vengono fatti i nomi dei magistrati che hanno sbagliato, non vengono giudicati perché la giustizia ingiusta diventa giusta e quindi alla fine paradossalmente la giustizia trionfa.

    Sarebbe un errore puntare il dito contro qualcuno, si può sbagliare, chi fa questo lavoro deve farlo con una triplice responsabilità così come chi fa il giornalista deve fare altrettanto.

    La smentita non ha la stessa forza dell’accusa? Non è solo un problema di risarcimento ma di reputazione.

    E’ questo il punto. Dipende molto da noi. Vito Gamberale, un manager accusato negli anni di tangentopoli e finito in carcere, quando è venuto in trasmissione ha mostrato la rassegna stampa del suo arresto: due faldoni molto spessi. La rassegna stampa di quando tutto è finito era invece di solo tre paginette.

    Accade sempre così. Uno finisce in carcere e c’è il grande titolo, esce dal carcere, viene prosciolto, e gli si dedica una piccola notizia se tutto va bene. Tutto questo impatta sulla vita delle persone, soprattutto per chi vive nelle piccole realtà. Anche lì si può vivere il dramma di un’accusa ingiusta e di una reputazione macchiata.

    Il senso del libro e della trasmissione è stato quello di restituire loro quell’onore perduto e di ridare loro quel riscatto che gli era mancato.

    Che peso ha il pregiudizio in questi casi di errore giudiziario?

    E’ decisivo perché l’errore nasce spesso da indagini fatte male o frettolosamente, da scambi di persona, testimonianze non attendibili che vengono ritenute invece veritiere.

    Ma soprattutto dal pregiudizio, di nascere in un posto, il pregiudizio di arrivare in questo paese da un altro paese, il pregiudizio di avere un fratello criminale o di avere un amico che ha commesso un crimine oppure, come accade ad una ragazza che è l’ultima storia del libro, di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

    Ritiene che il carcere abbia ancora un valore rieducativo?

    Su questo bisognerebbe fare una grande riflessione perché questo è il presupposto del carcere. In realtà è un luogo di negazione, di privazione ma non della libertà, perché quello è il presupposto del carcere. Le condizioni in cui la pena viene scontata sono spesso disumane e di questo noi dobbiamo farci carico.

    Il carcere è un elemento di questa società non possiamo pensare che sia un luogo estraneo a noi. Il carcere fa parte della nostra società e noi se siamo delle persone civili dobbiamo garantire delle condizioni ugualmente civili a chi finisce dietro le sbarre, colpevole od innocente che sia. Quindi recuperare quel valore di rieducazione del carcere secondo me è una delle priorità di questo momento.

    Che cos’è l’ingiustizia secondo lei?

    L’ingiustizia è il non rispetto delle regole, il non rispetto degli altri, il non rispetto dei diritti, il non rispetto dei propri doveri. L’ingiustizia vuol dire non avere rispetto delle altre persone della comunità in cui si vive, dei diritti e dei doveri di ognuno di noi.

    L’ingiustizia è qualcosa che m’indigna profondamente. Io sono una persona pacifica e tranquilla ma di fronte all’ingiustizia anche io posso perdere quella calma che mi appartiene.

    Lei ha sempre sognato di fare il giornalista, cosa vuol dire fare giornalismo oggi?

    Il grande cambiamento dovuto all’innovazione tecnologica, che è un po’ il simbolo di questo momento storico, ha profondamente cambiato il nostro lavoro; all’inizio si pensava che si potesse fare a meno del giornalista. Chiunque poteva improvvisarsi, basta un telefonino e uno diventa un broadcaster.

    Il risultato è stato che siamo stati, in questi ultimi anni, sommersi da fake news, post verità, da profili troll, insomma da un’ondata di disinformazione che vede sempre più cruciale il ruolo del giornalista.

    Non ci si può improvvisare giornalisti, questo lo rivendico, il giornalismo è un percorso fatto di studio, di formazione e tanta esperienza e quella si vede.

    Come si concilia il giornalismo con la solidarietà?

    Il giornalismo deve essere anche uno strumento di solidarietà. Noi abbiamo questo potenziale che ci porta ad essere strumento e portatori di un messaggio. Secondo me il buon giornalista è anche quello che diventa portavoce di iniziative per aiutare gli altri. Io penso che si debba utilizzare il potenziale che si ha per diffondere buone pratiche ed iniziative solidali. Il giornalismo deve sposare la solidarietà sempre.

    I politici utilizzano sempre di più i social. E’ cambiato anche il modo di fare comunicazione politica?

    E’ cambiata la mediazione. La prima fonte una volta era l’agenzia di stampa per cui un politico s’indirizzava ad un giornalista dell’agenzia e forniva la propria opinione che poi veniva messa in rete. Questo passaggio è stato bypassato.

    Il politico è diventato la fonte principale attraverso i social. Poi c’è la mediazione del giornalista, come facciamo al telegiornale prendendo la posizione del politico e inquadrandola nel contesto del giorno. Il giornalista serve appunto a ricordare la posizione, inquadrarla, fare l’analisi politica, incorniciarla nel contesto per esempio della coalizione alla quale il politico appartiene, incrociarla con il dibattito del giorno.

    Quindi ancora una volta se è vero che il politico è diventato la sua fonte primaria al tempo stesso serve il giornalista che fa il quadro globale della situazione.

    Ponte Milvio è uno dei ritrovi della movida romana, troppo spesso teatro di risse. Tornando al suo libro, con tanti innocenti in carcere perché “andarsela a cercare”per puro divertimento?

    Le racconto un episodio che mi è successo qualche sera fa tornando da una cena. Sono stato fermato da una pattuglia per un controllo documenti e l’alcol-test. Avevo bevuto un paio di bicchieri a cena quindi mi sono anche preoccupato, non mi ero mai posto il problema “del quanto” non essendo un bevitore accanito. Ho fatto il test risultando negativo.

    La mia amica che avrebbe dovuto guidare ha voluto provare il test ed è risultata positiva. Aveva bevuto solo un amaro in più e se fosse stata alla guida quello sarebbe stato l’inizio del sequestro dell’auto e di tutto ciò che ne consegue. Le racconto questo episodio perché mi ha fatto molto riflettere, spesso uno non pensa al “quanto”.

    Per rispondere alla domanda penso che spetti a noi adulti sensibilizzare di più le giovani generazioni, credo che siano molto utili questi controlli, maggiore vigilanza e maggiore informazione ma soprattutto maggiore sensibilizzazione da parte delle famiglie perché tutto origina da lì. Non è una questione di Roma nord che è un territorio che io amo e nel quale mi sento veramente a casa, ma è un tema a più ampio spettro che va affrontato in un modo più ampio.

    Francesca Bonanni

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