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    Fra leggenda e realtà Bob Dylan conquista l’Auditorium

    bob dylan
    Galvanica Bruni

    Eccomi qua, sono venuto a vedere lo strano effetto che fa, la mia faccia nei vostri occhi, e quanta gente ci sta…“. La Sala Santa Cecilia è piena, carissimo De Gregori, e il volto di Bob Dylan, che ovviamente non guarda mai i nostri occhi colmi di stupore e devozione, si intravede soltanto nella penombra di un disegno luci intimo e minimalista.

    Settantasette anni da compiere il prossimo 24 maggio, oltre mezzo secolo di carriera costellata da svolte clamorose e sorprendenti, più di 125 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, migliaia di concerti in ogni angolo del pianeta, decine di riconoscimenti prestigiosi (fra i quali spiccano il Nobel, il Pulitzer, la medaglia presidenziale della libertà e l’Oscar), fan adoranti che attraversano le generazioni e i continenti: eccolo qua, Bob Dylan, per la prima delle sue tre serate all’Auditorium Parco della Musica.
    Gli avvertimenti sono chiari: non si fanno foto o video (pena l’espulsione dalla sala) e bisogna arrivare puntuali. Se Dylan fa scrivere che si comincia alle 21, il concerto inizia alle 21.

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    Scordatevi di vederlo imbracciare una chitarra o soffiare dentro a un’armonica: lo vedrete in piedi o seduto al piano, in posizione defilata, con sporadiche apparizioni al centro del palco per i suoi omaggi ai grandi crooner della tradizione musicale americana.

    Bob Dylan non accompagnerà i suoi brani con qualche frase o spiegazione (vabbè, questo non è un mistero) e non potrete cantare insieme a lui (seconda scoperta dell’acqua calda) perché i suoi brani, soprattutto i classici, avranno arrangiamenti talmente diversi dagli originali da risultare irriconoscibili, se non fosse per le parole (terzo ed ultimo luogo comune).

    La sua voce, specialmente all’inizio, non mancherà di toni gracchianti e striduli, in certi momenti sarà flebile, un soffio rauco emesso quasi controvoglia, per poi riscaldarsi e arrampicarsi arditamente sulle sette note, abbracciandole e facendoci a pugni, come di consueto.

    Ma non c’è niente di consueto in un’esibizione di Dylan: nonostante le critiche che gli si possono muovere, quando entra in una sala, la qualità dell’aria cambia e si avverte – intatto e vibrante – tutto il suo eccezionale carisma.
    Accompagnato dalla sua band talentuosa e rodatissima, nel primo dei suoi tre show romani il cantautore di Duluth, Minnesota, si è esibito per un’ora e cinquanta minuti, proponendo diciassette canzoni del suo immenso repertorio e tre cover relative alla sua recente produzione da crooner.

    E ha incantato tutti i presenti. Ma, riavvolgiamo il nastro del racconto e torniamo indietro fino alle ore 21 di martedì 3 aprile.

    Lo show canzone per canzone

    Si comincia con Things Have Changed, il pezzo che Bob Dylan scrisse per il film “Wonder Boys” (2000) e che gli valse un Oscar e un Golden Globe, una gemma d’inizio secolo che mette subito la situazione in una prospettiva estraniata e disillusa: “la gente è pazza e i tempi sono strani, sono chiuso a chiave, sono fuori portata, mi importava, ma le cose sono cambiate“. Quasi le generalità sulla sua carta d’identità, forse.

    Si prosegue con una duplice frugata nel forziere inestimabile degli anni sessanta, con due canzoni che, sia pur distanziate di soli due anni, più diverse non potrebbero essere (state).

    Don’t Think Twice, It’s Alright (“The Freewheelin’ Bob Dylan”, 1963), a suo tempo immortalata nella sua scarna essenzialità folk, diventa un’avvolgente ballata country che, però, conserva l’incisiva maturità di tutte le sue asserzioni: “non dico che mi hai trattato male, avresti potuto fare di meglio ma non m’importa, hai soltanto sprecato il mio tempo prezioso, ma non ci pensare, va tutto bene“.

    Invece, Highway 61 Revisited (1965) racconta tutta un’altra storia e lo fa in modo completamente differente. Il brano – title-track dell’omonimo album che è il cuore della trilogia elettrica – è l’incalzante e potente filastrocca rock-blues di sempre, in cui ogni problema – incluso l’atroce dilemma di Abramo – è destinato a risolversi sull’autostrada 61, la striscia d’asfalto che si snoda fra Duluth e New Orleans.

    Sul destino e sulla sua ineluttabilità beffarda – sulle situazioni e le sensazioni che non si riescono a spiegare altrimenti, cioè, – Bob Dylan si sofferma con la successiva, didascalica ballata Simple Twist of Fate (“Blood on the Tracks, 1975), prima che le allegre e scanzonate sonorità rock di Duquesne Whistle (“Tempest”, 2012) cambino di nuovo l’atmosfera del concerto e che con Melancholy Mood (“Fallen Angels”, 2016) si renda un tributo tanto inusuale quanto emozionante a Frank Sinatra,

    I versi aggressivi e il rock febbrile di Honest With Me (“dici che i miei occhi sono belli e che ho un bel sorriso, bene li venderò a un prezzo ridotto, non li capisci, i miei sentimenti per te, saresti onesta con me, se solo lo sapessi” (“Love and Theft”, 2001) cedono il posto alle armonie avvolgenti di Tryin’ to Get to Heaven (“Time Out of Mind”, 1997), una sorta di “Knockin’ on Heaven’s Door” rivista e corretta (e bellissima) in cui il poeta, insieme a tutti gli altri, “tenta di entrare in paradiso prima che chiudano le porte“.

    Dopo che con la magnifica Once Upon a Time (“Triplicate”, 2017) si rende omaggio anche a Tony Bennett, arrivano le liriche asciutte e minacciose di Pay in Blood (“presto o tardi farai un errore, ti metterò una catena che non potrai mai spezzare, gambe e braccia, corpo e ossa, io pago nel sangue, ma non nel mio” (da “Tempest”), prima che la sgangherata resa blues di Tangled Up in Blue (“Blood on the Tracks”) faccia segnare il momento meno riuscito del concerto (perdonatemi, se potete).

    Lo show tocca, però, di nuove punte altissime con due perle estrapolate da “Tempest”, uno degli album più riusciti della produzione più recente di Bob Dylan.

    La bellezza stupefacente di Soon After Midnight – ballata morbida ed elegante – è seguita dalle invettive senza appello contenute in Early Roman Kings, un blues spietato e sinistro, una chiave di lettura per le ingiustizie dei tempi moderni: “sono venditori ambulanti e intriganti, comprano e vendono, hanno distrutto la tua città, e distruggeranno anche te, sono lascivi ed infidi, ognuno di loro è più grande di tutti gli uomini messi insieme“.

    Nella successiva, fondamentale, inarrivabile Desolation Row (“Highway 61 Revisited”) viene presentata un’umanità varia, per metà prelevata dalla Bibbia e per metà tratta dalle pagine di Steinbeck: “ora la luna è quasi nascosta, le stelle stanno iniziando a scomparire, persino l’indovina ha messo via la sua roba, tutti eccetto Caino e Abele e il gobbo di Notre Dame, tutti fanno l’amore o aspettano la pioggia“. Applausi, applausi, applausi.

    E, dopo, di nuovo una virata brusca e inattesa: Love Sick (“Time Out of Mind”, 1997) è un grido di dolore disperato, una ballata rock dal gusto acido e malsano in cui la delusione d’amore è definitiva, annichilente. Canta il poeta, così semplicemente e desolatamente: “sono malato d’amore, vorrei non averti mai incontrato, sono stanco d’amore, sto cercando di dimenticarti, solo non so cosa fare, darei qualsiasi cosa per stare con te“.

    Dopo la potentissima Thunder on the Mountain (“Modern Times” 2006), Dylan dà per la terza volta prova delle sue stupefacenti doti di crooner, proponendo forse il pezzo più bello e incantevole di tutta la serata.

    Autumn Leaves (“Shadows in the Night”, 2015) conquista e stupisce fin dalle prime note: merito anche di Jacques Prevért che scrisse i suoi magnifici versi (“Les Feuilles Mortes”), di Johnny Mercer che li tradusse in inglese e di Joseph Kosma che ne fece uno standard jazz.
    Applausi e commozione, prima che arrivi Long and Wasted Years (di nuovo “Tempest) a chiudere il concerto alle 22 e 33 minuti.

    La band e Bob Dylan lasciano il palco, le luci si spengono, gli applausi si sprecano e le mani si spellano. Passano tre minuti ed arrivano i bis.

    Ecco il classico dei classici, ossia Blowin’ in the Wind (“The Freewheelin’ Bob Dylan”), che nell’esecuzione dell’Anno del Signore 2018 diventa una ninna nanna  punteggiata dal pianoforte, domande potenti per un mondo migliore e più giusto da portare e custodire nei propri sogni. Magia vera.
    Chiude la bellissima  Ballad of a Thin Man, pietra angolare di “Highway 61 Revisited” e di tutta la trilogia elettrica.

    Sono le 22.50: Dylan e la sua band sono al centro del palco, il cantautore americano accenna un inchino, manda un bacio, fa un mezzo sorriso (forse), poi si spengono le luci fra gli applausi scroscianti.

    La leggenda racconta che Bob Dylan esiste davvero e che, dopo oltre mezzo secolo di carriera, è ancora in tour a dispensare magie. Stasera e domani sera si replica: siate puntuali.

    Giovanni Berti

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