Home CRONACA Bruce Springsteen a Roma, la bellezza salverà il mondo

Bruce Springsteen a Roma, la bellezza salverà il mondo

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foto di Mathias Marchioni
Galvanica Bruni

Trentaquattro canzoni per tre ore e cinquantadue minuti di concerto. Dodici brani pescati da “The River”, cinque pezzi eseguiti su richiesta, due gemme acustiche, quattro cover, tre prime assolute per questo tour, una dedica per i lavoratori italiani del sociale e una per le vittime di Nizza.

Sono queste le statistiche dello show che Bruce Springsteen e la sua E Street Band hanno tenuto davanti ai sessantacinquemila spettatori che nella serata di sabato 16 luglio hanno gioiosamente preso d’assalto il Circo Massimo.

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Ma i numeri, se un significato comunque ce l’hanno, raccontano sempre una verità parziale, fotografano solo una parte della scena: non è stata, infatti, solo la lunghezza, ma la qualità della performance, oltre alla scaletta proposta, a fare una straordinaria differenza sotto le stelle della Città Eterna, che ha riservato al pubblico capitolino, italiano ed internazionale una temperatura clemente e un’acustica soddisfacente.

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foto di Henry Ruggeri

E, allora, “per chi l’ha visto e per chi non c’era”, ripercorriamo song by song questa magnifica cavalcata rock, che senza soluzione di continuità ha dispensato emozioni, speranze e gioia di vivere.

La cronaca del concerto

Dopo gli applausi per l’ottimo blues di Fabio Treves e per l’energetico pop-rock dei Counting Crows, si sistema il palco e si aspetta che cominci il concerto: sono le 20.19 quando gli altoparlanti del Circo Massimo diffondono le note struggenti di “C’era una volta il West”.

La musica di Ennio Morricone, da sempre apprezzato da Springsteen, accompagna l’ingresso dei musicisti della E Street Band sulla scena, dove hanno già preso posto i sei archi dell’Orchestra Roma Sinfonietta.
Segno che qualcosa di speciale sta per accadere. Subito, immediatamente.

Applauditissimo alla sua apparizione, Bruce regala un “daje Roma” da manuale e,come nella notte magica di tre anni fa a Capannelle, offre alla capitale una delle perle più rare e preziose del suo repertorio, ossia New York City Serenade.

L’emozione palpabile che diffonde questo inarrivabile pezzo degli esordi (anno 1973) è seguita dall’energia strabordante diBadlands, che, supportata egregiamente dal basso di Garry W. Tallent e dalla batteria di Max Weinberg, cambia radicalmente l’atmosfera di uno show che è entrato subito nel vivo. Si avverte fin dall’inizio che questa sarà una serata unica, in cui la scaletta verrà messa a dura prova.

Infatti, Springsteen avanza verso le prime file e pesca il primo cartello, accoglie la prima richiesta del pubblico. Il rockabilly trascinante firmato da Eddie Cochran, Summertime Blues, fa ballare e cantare tutti, diffondendo vitalità e moltiplicando il divertimento, prima che il boss e la band regalino al pubblico una generosa selezione di brani estrapolati da “The River”.

Arrivano le scariche elettriche di The Ties That Bind (“è una lunga autostrada nera, con una sottile linea bianca che collega il tuo cuore al mio”), le atmosfere allegre e scanzonate di Sherry Darling (“ho qualche birra e la strada è libera, e ho te, piccola, e tu hai me”) e i dubbi atroci e martellanti diJackson Cage (“ti vedo così stanca e confusa che mi chiedo se valga la pena per me o per te di aspettare di vedere un po’ di sole senza sapere se quel giorno verrà mai”).

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foto di Mathias Marchioni

L’oscurità che connota quest’ultimo pezzo si stempera e si dissolve nella ritrovata, limpida consapevolezza di Two Hearts (“ora credo che, in definitiva, due cuori siano meglio di uno”), prima che sugli spettatori del Circo Massimo piombi, ma come una carezza dolorosa, la conversazione notturna al tavolo della cucina narrata in Independence Day.

“Questa è una canzone sui rapporti tra padre e figlio”, dice Springsteen in italiano prima di proporre al pubblico un’interpretazione intensa e sofferta che, impreziosita dal sax di Jake Clemons, racconta incomprensioni e punti di vista differenti, ma alla fine non inconciliabili (“dimmi addio, è il Giorno dell’Indipendenza / papà, ora so le cose che volevi ma non sapevi dire / dimmi solo addio, ti prego, è il Giorno dell’Indipendenza / ti giuro che non ho mai pensato di portare via tutte queste cose”).

Applausi e commozione. Poi si cambia radicalmente registro con l’allegria e il bagno di folla diHungry Heart, oltre che con il coro irresistibile e il ritornello contagioso di Out in the Street (impossibile non fare “oh-oh-oh-oh-oh”!).Dieci canzoni eseguite finora, pubblico incantato, alternanza di emozioni e di atmosfere, sorrisi che si aprono sempre di più, piedi che non vogliono saperne di stare fermi, mani che si spellano per gli applausi, entusiasmo crescente.

Ma siamo ancora all’inizio e molto, anzi moltissimo deve ancora arrivare.

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foto di Simone Di Luca

Ecco un altro cartello, ecco un’altra richiesta soddisfatta, ecco la potentissima, vigorosa Boom Boom, la splendida cover di John Lee Hooker alla quale il tastierista Charlie Giordano regala un tappeto sonoro davvero ragguardevole.

Si sa, ci sono molti modi per far arrivare un messaggio, per porgere una richiesta, per sollecitare una canzone. Su uno dei cappellini bianchi distribuiti dall’organizzazione uno spettatore ha scritto Detroit Medley: Springsteen prende il cappello, lo mostra alle telecamere e alla band, se lo mette in testa ed esaudisce anche questo desiderio. Il pezzo – che comprende “Devil with the Blue Dress”, “Good Golly Miss Molly”, e “C.C. Rider”- naviga sicuro e fila via scattante fra le onde benefiche e rigeneranti del rock classico e del sound Motown.

Si torna brevemente al doppio album che dà il nome al tour con gli allegrissimi ammonimenti di You Can Look (but you better not touch), che propone l’esilarante alternanza al microfono fra il capo e Little Steven, prima che arrivino le sonorità cadenzate e le accuse sferzanti contro il capitalismo contenute in Death to My Hometown” (“hanno distrutto le fabbriche delle nostre famiglie e si sono presi le nostre case”).

La band lascia il palco, Springsteen imbraccia la chitarra acustica e sistema l’armonica. Dedica la successiva, bellissima, immensa The Ghost of Tom Joad ai lavoratori italiani impegnati nel sociale. John Steinbeck e i “grappoli di furore”, la storia che si ripete, in ogni tempo, ad ogni latitudine: c’è chi sfrutta e chi viene sfruttato. E si ribella, nel drammatico e magnifico monologo di Tom Joad che il boss ha mutuato dalle pagine dello scrittore americano.

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foto di Mathias Marchioni

Ancora la crisi economica che devasta vite e relazioni, un testo che assomiglia ad un film neorealista, un brano che ha segnato profondamente la discografia e i live di Springsteen, un classico che ancora non ha finito di dire quello che ha da dire. Le luci dei cellulari si accendono dappertutto, il Circo Massimo si fa ancora più attento: è il momento di The River, storia di un amore e di un matrimonio riparatore che naufragano a causa delle avversità della vita. Un sogno che non si avvera è una bugia o è qualcosa di peggio?

Brividi, emozioni. Poi, la magnifica introduzione al piano di Roy Bittan a rendere ancora più cupa e drammatica la narrazione di Point Blank: “dici ancora le tue preghiere, piccola mia? Vai letto e preghi che domani andrà tutto bene? Ma i domani sono sempre di meno, uno dopo l’altro, ti svegli e stai morendo, e non sai nemmeno per cosa”.

Ma la rassegnazione cede il posto ancora una volta alla voglia di vivere, dalla disillusione scaturiscono nuovi sogni da inseguire nella realtà, in questo tempo e in questo spazio.
Così, la forza del messaggio trasmesso daThe Promised Land (“signore, non sono un ragazzo, sono un uomo e credo nella Terra Promessa”) trovano riscontro e supporto nell’estremo divertimento diWorking on the Highway eDarlington County, che all’inizio ingloba il riff di chitarra di “Honky Tonk Women” degli Stones e alla fine è infiocchettata dal violino di Soozie Tyrell.

 Dopo venti canzoni siamo arrivati a due ore di concerto, ma c’è ancora una lunga strada da percorrere. Mentre Bobby Jean ricorda a tutti la profondità del sentimento dell’amicizia, Tougher Than the Rest, che Springsteen canta core a core insieme alla moglie Patti Scialfa, parla d’amore, dell’amore possibile anche dopo i fallimenti, dell’amore che è conoscenza e coraggio di concedere un’altra danza, dell’amore che esiste davvero al di là dei muri e delle barriere che costruiamo tutti i giorni.

La magnificenza e l’eccezionale intensità di Drive All Night lasciano spazio al ritmo sempre più incalzante di Because the Night, in cui Nils Lofgren fa il solito, strepitoso lavoro alla chitarra, prima che arrivi The Rising a indicare la strada giusta per ogni rinascita.

Visibilmente commosso, Springsteen dedica alle vittime di Nizza la successiva Land of Hope and Dreams, che nel finale incorpora un frammento di “People Get Ready” e che è seguita dalla Grande Bellezza di Jungleland, il pezzo di “Born to Run” che contiene l’assolo di sax più bello di Clarence Clemons e che suo nipote Jake esegue con sentimento e maestria.

Siamo ai bis, si accendono tutti i riflettori, il Circo Massimo è una bolgia, è il momento dei rituali e della liturgia.

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foto di Mathias Marchioni

Inframmezzate dalla potentissima Ramrod, una dopo l’altra arrivano Born in the USA(mani e pugni alzati verso il cielo),Born To Run (“un giorno cammineremo verso il sole, ma fino a quel momento i vagabondi come noi sono nati per correre”) e Dancing in the Dark (ragazzi e ragazze invitati sul palco a ballare col boss e con i membri della band e un tredicenne a condividere la batteria con Max Weinberg).

Durante la scoppiettante Tenth Avenue Freeze Out compaiono sugli schermi i due componenti del gruppo che non ci sono più e che, pure, continuano a condividere ogni serata con i loro amici sul palco e fra il pubblico: gli applausi e la commozione sono tutti per Clarence Clemons e Danny Federici.

Si arriva all’epilogo, alla punta massima del divertimento, con Shout, il classico immortale e super energetico degli Isley Brothers che fa ballare tutti quanti e che viene interrotto e ripreso, infilandoci in mezzo la presentazione della band, almeno quattro volte.

Springsteen e la band ringraziano gli spettatori e Roma (“la città più bella del mondo”, dice in italiano), i musicisti lasciano la scena, il boss rimane da solo sul palco. Ha ancora tempo e voglia per un’altra magia. Chitarra acustica, armonica e voce per una Thunder Road che lascia tutti a bocca aperta.

Nonostante i tempi che stiamo vivendo, la bellezza salverà il mondo. Noi ci crediamo, dopo aver visto Springsteen al Circo Massimo.

Giovanni Berti

© riproduzione riservata – proprietà EdiWebRoma
ringraziamo Claudio Trotta e Barley Arts
per aver autorizzato l’uso delle foto

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

5 COMMENTI

  1. . . .♫..complimenti a chi ha scritto tutto questo stupendo articolo!..leggendolo mi è sembrato di nuovo di essere li sotto a quel palco..canzone x canzone!..Grazie!..comunque Springsteen ha dimostrato ancora una volta di fronte ai miei occhi…di essere un numero uno grosso come una casa..Rock ‘n’ Roll ..♫. . .

  2. Congratulazioni per l’articolo. Chi scrive dimostra di essere estremamente competente ed un vero appassionato, in grado di emozionare il lettore. Qualcuno che il concerto lo ha veramente “vissuto” da dentro e non ha solamente assistito con distacco da lontano o da un’area vip riservata.
    Magia allo stato puro, Roma che per una volta supera Milano, grande Bruce !!

  3. Meraviglioso! Ero lì dopo San Siro e altri … 14 concerti e ho vissuto emozioni intensissime! Sei stato bravissimo a raccontarle 😉

  4. Ogni fan commette lo stesso errore… speriamo suoni questa, speriamo suoni quella… poi decide lui, a seconda dell’umore e del pubblico. Quest’anno ho deciso di andare anche a Milano (quando ancora era una sola serata), tornare dopo 31 anni in quello stadio che mi emozionò in modo indelebile. L’acusitca di San Siro è stata pessima, ma l’esecuzione mi era sembrata buona. Ma la serata del Circo Massimo ha cambiato la prospettiva: un’intesità ed una voglia rara, grande serata. I primi 7 brani di “The River” in fila mi avevano fatto sperare nella riproposizione dell’album completo… peccato.
    P.S.: ho colto l’occasione per vedere, a 22 anni di distanza, i Counting Crows… peccato siano stati “schiacciati” da Bruce, avrebbero meritato maggiore attenzione

  5. tutto vero! un articolo a livello del concerto, all’altezza -se non superiore- di quelli riportati si backstreets.com. Perché non glielo inviate? Manca solo una citazione di Roy Bittan, per il resto è perfetto! Complimenti

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