Il 20 Luglio dalle ore 9 alle 16 si terranno nel quartiere Villaggio Olimpico e più precisamente in Viale della XVII olimpiade (vedi mappa), corsi di Guida Sicura organizzati dalla società A.S.G.S.Per informazioni ed iscrizioni: A.S.G.S. Associazione Sportiva Guida Sicura – Tel. e Fax 06 32 33 013 – Mobile 338 33 23 045
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Ho trovato questo testo sul blog dello psicoterapeuta Gigi Cortesi.
L’ho trovato interessante, chissa forse potrebbe far riflettere tanti genitori….
Perché muoiono tanti giovani sulla strada
“È stato liquidato troppo in fretta come “strage del sabato sera”. Il fenomeno è ben più grave. Non si tratta solo dello sfogo inconsulto dopo una settimana di “duro lavoro”. Molti di questi giovani non lavorano, tanto meno lavorano “duro”. Né si tratta di feste esagerate: quasi tutti loro non sanno che cosa sia festa, riso, gioia. Non lo sanno perché non hanno mai vissuto la festa. La festa sta alla fine di un cammino, di un’impresa, di una conquista. Loro il cammino non l’hanno neppure cominciato; le imprese e le conquiste sono un geroglifico da Ufo; nessuno gliele ha mai né prospettate né permesse né testimoniate. Loro abitano in casa con i genitori, spesso solo con la mamma. Le uniche conquiste e imprese di cui abbiano notizia sono solo quelle di un padre in disarmo, frustrato e impotente; hanno sempre il solito castrante incipit: “io alla tua età ero già … facevo già … andavo già … guadagnavo già”. “Già”, drammatico e squallido “già”: quanti figli incagliati, irretiti, castrati da quel” già” paterno! E pensare che il padre, più che dirlo al figlio lo dice a sé stesso, alla propria vita altrimenti senza echi, alle proprie orecchie che non ascoltano più, alla propria anima che non si è mai davvero innamorata, davvero sposata, davvero emozionata. Lo dice al figlio, perché non ha altre ombre o altri fantasmi cui rivolgersi. È lui il padre ad avere bisogno di quel figlio che non lavora o “lavoricchia soltanto”, che non ha ragazze o le ha “più scombinate di lui”, che non ha amici “veri come li avevo io”. È lui il padre ad avere bisogno di quel figlio sfigato. Non solo non lo sa, ma addirittura pensa che sia il figlio ad avere bisogno di lui: “se non ci fossi io a mantenerti, a raccomandarti, a spingerti, a tenerti in casa, a vestirti …”.
E la madre zitta. Tace. Non c’è: è fuori, “in parrocchia ad aiutare”, oppure a fare le scale del condominio “per arrotondare, la pensione è così poca”. E, se c’è, è come non ci fosse. Magari è depressa da anni. Da epoche è sotto Tavor o Lexotan: “è solo un calmante, non fa nulla”; “mi basta ascoltare Radio Maria e prendere qualche goccia, così non penso a niente e il tempo passa di più”. Quando parla, parla con la sorella o con la vicina: si sfogano del marito che urla o beve o non si lava, del figlio che non lavora e non ha la morosa; raccontano di “quella che se ne è andata di casa”: “non c’è più sentimento”, “sono tutte svergognate”, “però lui è bello e alto”, “chissà cosa fanno insieme”, “non c’è più religione”.
E la coppia? Chissà da quanto non fanno l’amore. Forse non l’hanno mai fatto. Forse qualche volta hanno creduto di farlo. Forse erano solo sfoghi, masturbazioni a due, silenzio dell’anima. Lui ormai lo fa solo qualche volta, con la puttana della tangenziale: “l’uomo è uomo”, “poi le negre costano meno, e lei non si accorge nemmeno”.
Che succederebbe se quel figlio se ne andasse? Che farebbero loro, se lui si innamorasse davvero, si sposasse, mettesse su casa davvero, lontano da loro? La madre a chi stirerebbe i vestiti “con tanto amore”, tra un Tavor e l’altro? A chi preparerebbe da mangiare, di chi si preoccuperebbe, per chi andrebbe in ansia, per chi soffrirebbe “così tanto”? E, senza quel figlio che di notte “chissà dove va”, come giustificherebbe le proprie insonnie, come occuperebbe le proprie interminabili notti di vedova bianca e di frigida inconsolabile?
Intanto lui, il padre, dorme. La negretta è più efficace del Tavor e più rapida del Lexotan. E poi, se il figlio torna tardi, meglio; domani potrà ancora di più criticarlo, ancora di più potrà dire alla moglie: “è colpa tua se è così”, “l’hai sempre difeso”, “non vedi che è come te?”, “se non ci fossi io in questa casa …”, “io alla sua età ero già …”.
Nessuno ha mai detto bravo a quel figlio. Nessuno l’ha mai abbracciato veramente, quando lui ne aveva bisogno e voglia. I rarissimi “bravo” erano sempre seguiti da violenti, rapaci, esproprianti “ma”, “però io”. Gli abbracci più che dare prendevano; erano l’alternativa al Lexotan che la madre, dandoglieli, si concedeva. Lo abbracciava per sentirsi brava lei come madre, per potere lei abbracciare qualcuno, quando ne sentiva lei il bisogno, quel bisogno mascherato d’amore materno.
Poi l’incidente. Di notte. Ad alta velocità. Con la birra in mano, la pasticca nel sangue, gli amici accanto.
Adesso lei, quando capita, prende Tavor e Lexotan insieme. Oltre a Radio Maria ora ascolta anche chi comunica con i morti e ne sente la voce. In parrocchia la ascoltano ancora di più; la sorella e la vicina la compatiscono meglio, come non mai: “se non mi mancasse lui, non starei poi così male”. Per andare al cimitero, due uscite al giorno ora le fa; va dal fiorista; per uscire, si toglie la solita tuta, si veste, si pettina, mette anche un filo di cipria.
Adesso “è lui che sta poco bene”, “è un depresso”. “gli ho dato il mio Tavor, ma non gli fa niente”, “dopo l’incidente è più noioso, non si stacca mai, non esce più di casa”, “non ne posso più”.
Quella notte lui, il figlio, abitava una strada. Le strade sono grigie di giorno, nere di notte, proprio come la vita di un figlio sfigato. Le uniche cose bianche sono le righe: segni, cifre, regole che come tanti “già” segnano sentieri mai davvero tracciati, percorsi senza mete, fatiche senza sudori né orizzonti, disperazioni sorde e senza confini.
La macchina gliela aveva prestata il padre dopo le solite insistenze e mediazioni della madre. Veloce come la “bottarella con una di quelle”, con il tagliando e il meccanico “già” sistemati, con la benzina “già” fatta, era lì sotto il piede dell’acceleratore. Vai, vai almeno tu che lo puoi. Fuggi, macchina, portami con te. Quando si fugge, non importa la meta, importa solo la velocità. Solo se si è veloci, non si pensa. Solo se si è veloci, ci si illude che nessuno ci tenga, che nessuno ci usi, che nessuno dica di pensare a noi senza mai, mai, mai averci amato.”
Approfondimenti su Gigi Cortesi
http://gigicortesi.wordpress.com/
http://www.spruzz.eu/cortesi-ita.htm