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Le allucinazioni di Amleto Cassia-NY

Duca Gioielli

teatropatologico1.jpgChe Amleto fosse un tipo da turbe mentali si sapeva. Che un giorno qualcuno, magari proprio sulla Cassia, si sarebbe preso la briga di insegnargli a vivere nessuno l’avrebbe mai detto. Anche perchè è vero che si tratta di allucinazioni ma un pezzetto di Amleto alberga in tutti noi. E allora ricordiamoci che si vive per amare e non per roba del tipo essere o non essere. That isn’t the question.

Il problema è un altro e ce lo spiega perfettamente Dario D’Ambrosi nella sua splendida rivisitazione teatrale del classico shakespeariano dal titolo “Le allucinazioni di Amleto”, che venerdì 4 ottobre è andato in replica in anteprima mondiale per l’ultima volta nel Teatro Patologico di Roma, in via Cassia 472, prima di spiccare il volo verso gli States, dove il prossimo 17 ottobre debutterà al teatro La MaMa di New York e ci resterà per un mese.

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Lo spettacolo di D’Ambrosi, qui in veste di autore, regista e interprete, è un concentrato di emozioni, una trasposizione provocatoria, psicotica e allucinata (appunto) di un classico immortale.

Recitata quasi interamente in inglese, la rappresentazione si divide in due parti. La prima, più lunga, vede protagonisti Amleto e Ofelia al centro di un set che definire spettrale è quanto mai azzeccato.

La scenografia, infatti, riproduce alla perfezione quello che, nella penombra, si rivela essere un cimitero. La scena è sinistramente allestita al centro del parterre e il pubblico è seduto per terra tutto intorno. Disseminati sul pavimento ricoperto di terriccio, croci e teschi fanno macabro capolino un po’ ovunque.

Ai due angoli opposti del camposanto sono sotterrati Amleto e Ofelia, che d’improvviso si rianimano ed escono dai loro pluricentenari letti di morte dando vita ad un dialogo etereo, surreale e ossessionante che culmina nella seconda e conclusiva parte dello spettacolo segnata dall’improvvisa irruzione in scena di un D’Ambrosi in grande spolvero nel ruolo del becchino.

Questi, trovandosi di fronte croci dissotterrate, tombe aperte e terra buttata per aria, si arrabbia non poco col povero principe impazzito e lo rimette in riga a suon di sganassoni insegnandogli le fondamenta della vita: assaporare ogni momento, vivere ogni goccia di esistenza, amare e non perdersi in dubbi che sono come uccidersi pian piano. Seminare, annaffiare, raccogliere, mangiare. Questo il senso dell’esistenza.

Un insegnamento perentorio, deciso, energico, che ci prende alla gola e ci riporta coi piedi per terra. Un insegnamento che vale per tutti, recitato un po’ in inglese e un po’ in italiano. Ed è proprio D’Ambrosi, con tutto il suo carico di fisicità ed espressività, ad imporsi prepotentemente come il centro di gravità permanente dello spettacolo. E’ lui che ci riporta alla realtà. E’ lui che urla al cadavere ribelle di Amleto “Hai rotto il cazzo!” e gli spiega cos’è l’amore. Perchè Amleto dell’amore non sa nulla, deve prima imparare a vivere.

E’ così, dopo la sonora strigliata, anche lui dimostrerà di aver appreso la lezione di quest’opera originale, visionaria, inquietante, che rilegge Shakespeare in chiave moderna spogliandolo dei riferimenti politici pure presenti nel testo originale e andando al nocciolo di una questione che riguarda da vicino tutti noi.

Perchè in fondo non è solo Amleto a non conoscere l’amore, ma un po’ anche le generazioni odierne, perse in sé stesse e nella contemplazione del proprio io, mentre il senso della vita risiede altrove. To seed, to water, to harvest, to eat.

Valerio Di Marco

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