
Fiume, cioè il Tevere, già solo per fatto di aver visto nascere e alimentato l’Urbe, non può che essere una divinità connotata da proprietà eccezionali.
Infatti, perfino il materiale che deposita è unico e ineguagliabile: attenzione a non chiamarlo fango, o mota, o fanghiglia, o melma. Si chiama limo, o, tutt’al più, quando si attacca alle scarpe o vi si affonda e imprigiona piedi e gambe come sabbie mobili, si potrà chiamare mollaccia.
Il limo, essiccandosi, dà origine a quella sabbia finissima come polvere che la corrente deposita lungo le rive formando, nei luoghi acconci, vere e proprie spiagge, come quella dell’Arenula e dell’antistante Renella ben conosciute fin dall’antichità, e quella dei Polverini, di più recente memoria in quanto “fuori le mura”, frequentata in tempi moderni dopo l’edificazione dei muraglioni del Tevere.
Quest’ultima (oggi coincidente con la parte Nord del Lungotevere Flaminio) era frequentatissima dai bagnanti e dai patiti dell’abbronzatura (leggi qui) come i famosi componenti delle Tribù della Tintarella o dei Pellirosse; era luogo di riposo, scherzi e lazzi, merende e abbuffate, simbolo di libertà maschile e femminile in costumi da bagno con ostentazioni di muscoli e morbide curve; però era pericolosa per gli inesperti.
Tra le due rive, quasi di fronte al futuro Foro Italico, l’ansa tiberina aveva favorito il deposito sabbioso detto l’Isola der Zibibbo, così chiamata dal nomignolo del proprietario dello stabilimento insediatovi: si raggiungeva a nuoto, ma spesso qualche malcapitato affogava miseramente preso dalla corrente o da qualche mulinello.
E, fatto strano, i cadaveri degli annegati scomparivano nei gorghi del Fiume, per poi ricomparire tempo dopo, anche molti giorni, a poche centinaia di metri, all’Albero Bello, località sulla riva sinistra prima delle Belle Arti, all’altezza della odierna via Fracassini, dove verdeggiava il grande olmo che le dava il nome.
La corrente faceva di questi scherzi, e uno lo fece di certo due secoli fa.
Marzo del 1824, lungo il Tevere
Era giovedì 16 marzo 1824, e avvenne un fatto che scosse tutta Roma, per il quale furono versati fiumi di lacrime e d’inchiostro.
Miss Rosa Bathurst era una bellissima ragazza sedicenne, dalle lunghe chiome bionde, in soggiorno di studio a Roma con gli zii inglesi e la sorella Emmeline. Era allegra e corteggiatissima, anche perché piena di vita, frequentatrice della bella società e ottima amazzone.
Era fidanzata ad un ricco e rozzo gentiluomo inglese, ma era innamorata ricambiata del bel nipote di Papa Leone XII, Giovannino della Genga. Aveva un bel cavallo inglese che aveva chiamato Mercurio. Alloggiava nella Locanda di Anna Rinaldini in Piazza di Spagna 12.
La sera del 15 marzo, ospite di una festa all’Ambasciata in Palazzo Farnese, durata fino all’alba, ne era stata nominata reginetta; come tale aveva decretato che tutti gli ospiti, il giorno successivo, si ritrovassero a cavallo a Piazza di Spagna per una gita fuori porta lungo le rive del Tevere.
In tarda mattinata, dunque, cavalieri e dame a cavallo attraversando Porta del Popolo si erano diretti verso la riva del fiume risalendolo oltre Ponte Milvio. L’ambasciatore guidava il gruppo e lo seguiva miss Bathurst con il suo abito azzurro da amazzone e il largo cappello legato in gola con un nastro. Dietro, uno dei suoi ammiratori e quindi lo zio.
Attraversarono Ponte Milvio passando sotto la Torretta del Valadier (da poco edificata), avviandosi sul sentiero che costeggiava il Fiume verso la torre di un vecchio casale, che più di sessant’anni dopo si sarebbe chiamata Torre Lazzaroni dal nome del nobile che l’aveva rilevata e fatta restaurare.
Il Tevere era in piena per la pioggia della notte e l’acqua fuorusciva dal letto rendendo limaccioso il percorso.
Il cavallo dell’ambasciatore scartò verso terra per saltare un ostacolo, ma quello di Rosa non fece in tempo e scivolò verso il fiume, trascinando la ragazza che, seppure esperta, fu impedita nel governarlo dalla lunga veste bagnata.
La ragazza fu vista annaspare tra i flutti, senza possibilità di soccorso, in quanto nella comitiva nessuno era pratico nel nuoto. Solo il suo spasimante tentò disperatamente ma inutilmente di afferrarle la mano. Rosa scomparve quasi subito inghiottita dai gorghi nell’acqua gelida del fiume. Il suo cavallo riemerse e nuotando riuscì a guadagnare la riva più a valle. Della ragazza nessuna traccia, né della veste, né del cappello.
Il fatto riempì le cronache urbane
Fu cercata dappertutto al lume delle torce e tutta Roma si commosse e si impegnò a trovarla, ma invano, nonostante i bandi subito affissi che offrivano grossi premi. Fu proclamato il lutto cittadino e i Romani incolparono della disgrazia l’anno bisestile.
Il fatto riempì le cronache urbane; scrittori e poeti come Stendhal, Chauteubriand, Pindemonte e addirittura il Belli si profusero in omaggi scritti alla bellezza e alla grazia perdute. Il suo innamorato, che era partito il giorno prima, appena saputa la notizia si ammalò fino a morirne. Il suo fidanzato non si sposò mai più.
Lo spasimante che aveva tentato invano di salvarla, partito sconvolto per l’Inghilterra, tornò sei mesi dopo e volle rivedere il luogo della disgrazia, percorrendo la sponda destra del Tevere, in direzione di Castel sant’Angelo.
Fu attratto improvvisamente dalla visione, sulla riva opposta, delle tracce interrate di un panno azzurro: erano proprio all’altezza dell’Albero Bello. I fiumaroli chiamati estrassero il corpo della ragazza dal limo.
Per esaminarlo fu chiamato, dall’Ospedale della Consolazione, il chirurgo Antonio Trasmondi, medico famoso in tutta Roma e immortalato perfino da un sonetto del Belli (La morte de Stramonni, 21 aprile 1834).
Il cappello, ancora legato, aveva preservato lo splendore delle chiome bionde. Il viso era intatto e bellissimo, con solo una leggera ferita sulla fronte.
“Questa di Rosa è la storia vera…”
Qualcuno affermò che da quei capelli d’oro emanava ancora, miracolosamente, il leggero profumo d’assenzio che era solita indossare. Tale era stata la capacità conservativa del limo del Fiume, che l’aveva protetta dagli agenti atmosferici e dalla decomposizione.
Naturalmente, però, tale magia durò un attimo, perché l’esposizione all’aria provocò immediatamente il disfacimento dei tessuti. Ma tanto bastò perché i Romani gridassero al miracolo e tramandassero per sempre la storia della bellissima Rosa che il limo del Tevere aveva restituito intatta.
Il suo monumento funebre si trova nel Cimitero Acattolico di Testaccio ed è sempre meta di visite commosse.
Qualcuno sostiene, e forse non ha torto, che Fabrizio de André si sia ispirato a questa vicenda nello scrivere il testo della Canzone di Marinella che così comincia: “Questa di Marinella è la storia vera, che scivolò nel fiume a primavera…”
Sandro Bari
Emmeline, sorella di Rosa, non fu da meno…
Anche Emmeline Bathurst de Castle Stuart, sorella di Rosa, due secoli fa ha lasciato un segno nella storia di Roma. Lo ha lasciato a Villa Stuart, oggi nota clinica privata sulla Trionfale, allora una delle più belle ville nobiliari che sorgevano sulle pendici di Monte Mario. Ecco la sua storia, basta cliccare sulle seguente immagine…
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