Home ARTE E CULTURA Roma Film Fest: Bruce Springsteen star incontrastata della quinta giornata

Roma Film Fest: Bruce Springsteen star incontrastata della quinta giornata

Galvanica Bruni

Il grandissimo protagonista della quinta giornata della V Edizione del Festival del Film di Roma è stato Bruce Springsteen: il sessantunenne cantautore statunitense, atteso sotto la pioggia da una nutritissima folla, al suo arrivo nel complesso dell’auditorium ha firmato autografi e stretto le mani dei fans per poi presentare il documentario The Promise: The Making of Darkness on the Edge of Town, in concorso nella sezione L’Altro Cinema Extra.

Ma andiamo per ordine: il nostro pomeriggio al Parco della Musica inizia intorno alle 15 al Teatro Studio, dove, preceduto dall’interessante corto in 3D Victims di Anne Riita Ciccone, è in programma Mother of Rock: Lillian Roxon, il documentario, firmato da Paul Clarke ed incluso nel concorso della categoria L’Altro Cinema Extra, che narra la storia della giornalista che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta diede dignità letteraria alla critica musicale, scrivendo anche una enciclopedia della musica rock che rimane un punto di riferimento irrinunciabile per gli addetti ai lavori.
Nata ad Alassio nel 1932, proveniente da una famiglia di origine polacca, il suo vero cognome era Ropschitz: con i suoi genitori, quando inziarono in Europa le persecuzioni contro gli ebrei, emigrò in Australia quando aveva cinque anni. Fin da adolescente coltivò l’amore per la scrittura e mostrò il suo carattere deciso ed anticonformista. Dopo gli studi all’università del Queensland, nel 1959 si trasferì definitivamente a New York. Stabilitasi nel Greenwich Village, donna emancipata e bohemien, divenne uno dei punti di riferimento della vitalissima e sfrenata scena musicale ed artistica della “grande mela”, intuedendo le immense potenzialità di artisti emergenti come Bob Dylan, David Bowie ed Iggy Pop ed entrando in contatto con Andy Warhol e Alice Cooper, Lou Reed e Linda Eastman, la futura signora McCartney. Il microcosmo della sua esistenza, il punto focale che alla fine degli anni sessanta attirava tutti quelli che contavano, era il Max’s Kansas City, il locale dove la creatività e le trasgressioni erano all’ordine del giorno. Lillian non beveva e non fumava, si occupava dei talenti in erba, li proteggeva e li faceva sbocciare, creando per loro delle opportunità. Scriveva articoli originali, brillanti e taglienti. Sofferente di una forma acuta d’asma, morì prematuramente a 41 anni nel suo appartamento del Village. Il documentario, ben fatto e zeppo di ghiotte informazioni per chi segue la musica e vuole scoprire i risvolti nascosti di un pezzo significativo della sua storia, si candida tra i papabili per la vittoria in questa sezione del festival.

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Terminata la proiezione, ci spostiamo all’esterno solo per il tempo di constatare che la pioggia che si sta abbattendo sulla capitale è aumentata di intensità. Torniamo all’interno e ci rechiamo a grandi passi nella Sala Santa Cecilia, dove alle 17 è prevista l’anteprima di Rabbit Hole, il film prodotto da Nicole Kidman ed incluso nel concorso della Selezione Ufficiale. La Kidman, che è anche protagonista della pellicola, è assente a Roma: in platea siede l’interprete maschile, l’affascinante e bravo Aaron Eckart. Il film racconta la storia di due coniugi sofisticati e benestanti che, in modo confuso e con immensa sofferenza, cercano di elaborare il lutto conseguente alla morte del loro unico figlio di quattro anni. Quest’opera, pur avendo senza dubbio il pregio della straordinaria interpretazione di Nicole Kidman e pur avvalendosi dell’ottimo lavoro svolto da Aaron Eckart e Dianne Wiest, non aggiunge quasi nulla alla tematica che è stata già trattata, con estrema sensibilità e delicatezza, da film come La Stanza del Figlio di Nanni Moretti. Nonostante la solidità della sceneggiatura e la credibilità dei personaggi e delle situazioni, è proprio nella mancanza di originalità che risiede il limite di questa pellicola.

Usciti dalla sala, tocchiamo con mano il successo di pubblico che sta avendo questa prestigiosa rassegna cinematografica: tantissima gente entra ed esce dalle sale, avviandosi rapidamente verso un altro evento o concedendosi una breve pausa ristoratrice. Da fans di vecchia data quali siamo, intorno alle 19.20, ci posizioniamo in pianta stabile sulla transenna nelle vicinanze del red carpet: nononstante la pioggia, non vogliamo lasciarci sfuggire l’arrivo di Bruce Springsteen, venuto a Roma per presentare The Promise: the Making of Darkness on the Edge of Town, il documentario firmato da Thom Zimny ed imperniato sulla laboriosissima realizzazione dell’album del 1978 che segna una svolta fondamentale nella carriera del boss e che costituisce una pietra miliare nella storia della musica rock (e non solo). Naturalmente, moltissime altre persone condividono il nostro desiderio e la nostra passione: la zona nei pressi del tappeto rosso è presidiata da una folla che va via via aumentando nonostante l’inclemenza del cielo e nonostante si debbano aspettare perlomeno le 20.20 per l’arrivo del sessantunenne cantautore americano.
Una graziosa signora ripara con un ombrello rosso i suoi due bambini, ansiosi di salutare Bruce “Springfilg”, un autista dell’ATAC, che deve prendere servizio alle 20.40, spera ardentemente che il boss sia puntuale, Alessandro Pupita, che è accanto a noi e che è l’autore delle immagini che qui pubblichiamo, fa alcune prove con la sua macchina fotografica, mentre altri si domandano se, considerate le condizioni meteo, Bruce si fermerà più o meno a lungo con i fans.

Gli altoparlanti del Parco della Musica diffondono, una dopo l’altra, le tracce di Born in the USA: è il disco sbagliato per l’occasione ma non ha importanza. L’attesa si fa spasmodica, all’inizio del red carpet scorgiamo Piera De Tassis, direttore artistico del festival, arriva Gino Castaldo, il giornalista di Repubblica che prenderà parte all’incontro con Springsteen. Cambia la musica, adesso ascoltiamo le intensissime note di C’era una volta il west, è il segno che qualcosa sta per accadere: il boss è un grande fan di Morricone e questa musica ha introdotto il suo ultimo concerto romano dello scorso anno. Sono le 20.30 quando Bruce Springsteen, magro e scattante, vestito di nero e con gli occhiali da sole, scende dalla macchina. Ha smesso di piovere, il boss è sorridente, disponibile, va subito inconto ai suoi fans, che sono in delirio.

Li saluta ad uno ad uno, stringe tutte le mani che si allungano verso di lui (anche la nostra!) e firma tantissimi autografi (anche la nostra copia di Darkness on the Edge of Town!), è completamente a suo agio, è rilassatissimo. Con grande dolcezza saluta i bambini della signora con l’ombrello rosso, impiega più di venti minuti per percorrere tutto il red carpet ed arrivare infine davanti all’esercito di fotografi che sono appostati sotto la gli spalti della cavea traboccante di spettatori vocianti ed entusiasti.
C’è un cambiamento di programma causato, probabilmente, dalla necessità di far entrare tutti i numerosissimi accreditati in uno spazio più grande: l’evento, cui presenzieranno Springsteen, il suo manager Jon Landau e il regista Thom Zimny, non si svolgerà più nella sala Petrassi ma nella Sinopoli, dalla quale stanno uscendo moltissime persone. Si crea un ingorgo colossale, qualcuno si innervosisce, qualcun’altro teme che questo cambiamento non gli assicuri il posto prenotato. Bruce, arrivato e scortato all’interno, passa in mezzo ad ua folla di fans adoranti. C’è chi ha portato la sua chitarra per farsela autografare.
All’interno della sala il clima è quello di un concerto. Si respira l’aria di un evento unico, impareggiabile, leggendario. Dopo qualche minuto – sono le 21 passate – sul palco salgono Mario Sesti, curatore della sezione L’Altro Cinema Extra, ed i giornalisti Gino Castaldo ed Ernesto Assante, raggiunti da Thom Zimny, che viene accolto da una selva di applausi. Delle parole che vengono dette capiamo poco – anche noi siamo emozionati – e dopo qualche minuto viene garantito che al termine della proiezione “ci sarà una sorpresa“.

Buio in sala, sullo schermo scorrono le immagini del film che documenta il periodo cruciale dell’esistenza e della carriera di Springsteen. Dopo una estenuante battaglia legale condotta contro l’ex manager Mike Appel per il controllo della sua  musica, Springsteen può finalmente rimettere piede in uno studio di registrazione. Siamo nel 1977, il boss non ha ancora compiuto trent’anni ed è reduce dallo strepitoso successo di Born to Run, il disco che precede Darkness e che fu pubblicato nel 1975. E’ il momento di dare tutto e lui ne è consapevole, è tempo di fare un album, diverso dal precedente, che ne sancisca il talento, che faccia uscire dalla sua testa tutta la musica che gli pervade l’anima.
E’ il crocevia fondamentale della sua carriera artistica: un fallimento potrebbe determinarne la scomparsa dalla scena e poi ci sono i suoi amici, i suoi blood brothers, i membri della E Street Band, che dipendono da lui e dalle sue scelte. Springsteen, che per molti anni ha vissuto solo ed esclusivamente per la musica, è un ossessivo – compulsivo (e dice di esserlo tuttora) e per quelle sessions di registrazione scrive oltre 70 canzoni, molte delle quali hanno diverse versioni alternative sia per il testo che per gli arrangiamenti.
Le estenuanti sedute di registrazione in studio, le prove nella casa di Springsteen nel New Jersey, le interviste realizzate recentemente e, naturalmente, una caterva di canzoni meravigliose: è questo, in sintesi, lo splendido documentario firmato da Zimny che perlopiù si avvale di immagini mai viste e filmate da un amico del boss. Molta concentrazione e molti applausi da parte del pubblico punteggiano la proiezione della pellicola, applausi che si fanno commossi quando sullo schermo compare il volto di Danny Federici, il tastierista della E Street Band deceduto il 17 aprile del 2008.

Si riaccendono le luci in una sala gremitissima di fans appassionati e di giornalisti, gravida di emozione ed attesa. Vengono posizionate numerose sedie sul palco, dove tornano Sesti, Assante e Castaldo. Poco dopo li raggiungono, applauditissimi Landau e Zimny. E poi…il delirio, tutti in piedi ad urlare “Bruuuuuuce!!!” e fotocamere che scattano all’impazzata all’arrivo di Springsteen sul palco. Non si capisce più nulla, condividiamo con il pubblico un momento di festante trambusto, di emozionata partecipazione.
Ristabilita la calma, inizia l’incontro, che (ma non ci giureremo) dura una ventina di minuti. Bruce è affabile, divertito, rilassato. Conferma quello che tutti già sanno, ossia di aver vissuto molti anni solo ed esclusivamente per la sua musica, ed aggiunge, scherzando ma non troppo, che tramite essa ha potuto anche procurarsi una caterva di ragazze.

Dice di essere ancora alla ricerca della propria identità e di utilizzare la musica proprio come strumento della sua indagine. “Non sono un audiofilo, non amo per forza le cose vecchie e mi piace utilizzare la tecnologia, che facilita molto il lavoro nello studio di registrazione” – aggiunge Springsteen per poi, però, precisare: “ma il suono che viene impresso su un nastro audio conserva il suo fascino, possiede una magia che nessuna innovazione è ancora in grado di rendere“. Ironizza sulla tendenza che ha Landau, il suo manager da trentacinque anni, di parlare troppo a lungo e dice che a Roma gli piace sempre ritornare e passeggiare come un turista qualsiasi: “è uno dei posti più belli del mondo!”, dice il boss, prima di concludere dicendo che nel suo breve soggiorno nella capitale è stato anche a piazza San Pietro, dove ha avuto modo di incontrare alcuni suoi fans che erano presenti anche in sala e che ha salutato di nuovo.

L’incontro è finito: di nuovo trambusto ed eccitazione. Il boss, dopo aver ringraziato l’interprete Olga Fernando (“brava!”, le dice in italiano) si avvicina al limitare del palco e stringe ancora molte mani prima di uscire dalla sala. Una serata indimenticabile, emozionante ed irripetibile.

Giovanni Berti

© foto B.Springsteen di  Alessandro Pupita –  riproduzione del testo riservata proprietà EdiWebRoma

 

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