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Le acque di Roma

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Galvanica Bruni

Quando apriamo un rubinetto per bere un bicchiere d’acqua, per lavarci le mani o per fare la doccia non pensiamo certo da dove arriva quell’acqua; siamo talmente abituati ad usarla in quantità che diamo per scontata la sua presenza e quando viene a mancare, anche per poche ore, entriamo in crisi.

E’ del tutto normale perché l’acqua a Roma non è mai mancata fin dall’antichità e quella che oggi usiamo in parte ancora viaggia su gli antichi tracciati e si origina da sorgenti millenarie.

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Gli antichi romani amavano l’acqua in tutte le sue forme: laghetti, fontane, zampilli. La usavano per l’igiene, calda, fredda o tiepida; e la consideravano sacra perché veniva utilizzata nelle cerimonie religiose e per le purificazioni.
In principio usarono l’acqua del Tevere e dei numerosi pozzi ma quando la popolazione aumentò vertiginosamente e le acque del fiume divennero sporche fu necessario farla arrivare anche da località lontane.

Furono cosi realizzate condotte e acquedotti che alimentate da ricche sorgenti di montagna attraverso un lungo percorso portavano a Roma acqua fresca e limpida; e non si trattava certo di un piccolo rivolo.

L’acqua che arrivava nella Roma antica aveva un inusitato volume che dimostra peraltro la complessità e grandiosità delle opere idriche: solo dai quattro acquedotti della Valle dell’Aniene arrivavano 8.479 litri al secondo (11.700 da tutti e undici). Ogni 24 ore la Città Eterna riceveva 10.900.000 litri con una quantità pro capite di 1.097 litri (oggi ogni romano ne riceve solo la metà).

L’acqua che arrivava era potabile e freschissima perché captata da sorgenti alla base di vette comprese tra 1200 e 1500 metri, sgorgava limpida e purissima.

L’acqua migliore sembra fosse l’Acqua Marcia proveniente da una sorgente nei pressi del bivio per Marano Equo dove ancora oggi è possibile vedere i vari bottini di presa del nuovo acquedotto. Per arrivare a Roma compiva un percorso di quasi 90 chilometri passando per Castel Madama e Tivoli e raggiungendo la città nella zona della Stazione Termini (precisamente dove oggi sorge il Ministero delle Finanze).

A Roma, per alimentare le fontane o i bacini per le finte battaglie navali (naumachia) si usava acqua meno pregiata come quella portata dall’acquedotto Alsietinus.
Le acque, poco potabili e non adatte per cucinare, venivano invece captate dal lago di Martignano e portate a Roma attraverso un condotto sotterraneo di circa 33 chilometri. Oggi quell’acquedotto non è più in funzione dal momento che la galleria di ingresso delle acque è 12 metri al di sopra del livello delle acque: il che dimostra che a causa dell’eccessivo riscaldamento e della scarsa piovosità, nell’antichità Martignano aveva più acqua.

Anche se non bisogna dimenticare che all’interno del lago, sulle sue sponde sorge un bosco di alberi sommersi e pietrificati, segno che le acque si sono alzate ed abbassate nel corso dei millenni proprio a causa dei cambiamenti climatici.

Gli antichi romani avevano così a cuore la salute delle acque che misero a punto anche un “Codice delle acque” che prevedeva pene severissime per chi danneggiava gli acquedotti e faceva un uso improprio delle acque.
Nell’articolo 4 era inoltre prevista la possibilità di far passare nei terreni privati le condotte obbligando i proprietari ad astenersi, in quel terreno, da qualsiasi lavoro, escluso il pascolo.

Oggi per soddisfare le esigenze dei romani che hanno raggiunto la quota di 3.000.000 di abitanti ci si serve dell’apporto dei vecchi acquedotti Appio-Alessandrino, Marcio-Claudio Nuovo, Vergine e Paolo Traianeo oltre ai 3.000 litri al secondo dell’Appia-Alessandrina a cui vanno aggiunti i contributi del Peschiera e delle Capore (l’acqua che alimenta la trascurata fontana che si trova ai piedi del Monumento ai Caduti di Tomba di Nerone è Acqua del Peschiera).

Insomma quando apriamo un rubinetto per bere della buona e fresca acqua è bene rivolgere per un istante il pensiero all’infaticabile opera compiuta dai nostri antenati, amanti dell’acqua limpida e pura ma anche straordinari ingegneri.

Quello che hanno fatto ha dell’incredibile non solo dal punto di vista ingegneristico e architettonico; il loro lavoro è stato anche il frutto di una mentalità diffusa negli amministratori pubblici (niente a che vedere con quello che succede oggi) che ponevano le esigenze della “comunità” al primo posto.

Francesco Gargaglia

NdR: I dati tecnici contenuti nell’articolo sono stati presi dal volume di Giuseppe Panimolle “Le acque e gli acquedotti di Roma antica” – Comunità Montana dell’Aniene.

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