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“Volevo fare il calciatore. Della Lazio”

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“Io non volevo essere un calciatore: io volevo essere un calciatore della Lazio”: basterebbe questa frase per fare di Vincenzo D’Amico uno dei giocatori più amati della lunga e disgraziata storia biancoceleste, da quando a 17 anni il primo giorno di ritiro si presentava ai giornalisti come il nuovo regista titolare della squadra.

Pulici, Chinaglia, Re Cecconi, Frustalupi, Wilson e ora lui, sei undicesimi di quella squadra si stanno allenando in un campetto lassù, alcuni da troppo tempo, per non parlare del loro allenatore Maestrelli.

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D’Amico era giovane, giovanissimo, nemmeno 20 anni quando vinse lo scudetto, di fatto apparteneva a quella che consideriamo essere la generazione successiva dei calciatori anni ’80, quella di Conti e Di Bartolomei che erano più piccoli di lui di soli sei mesi, per non parlare di Falcao e Graziani che erano perfino più grandi di lui.

Scherzando disse che se Lovati era il 51% della storia della Lazio lui era il 49%, e quegli anni difficili se li era fatti tutti, dalle morti di Maestrelli e Re Cecconi al calcio scommesse, passando per la retrocessione in serie B, l’arrivo di Chinaglia come presidente, i disastri societari e la 24 ore del sodale Michele Plastino.

Poco più di 10 anni, nei quali accade letteralmente di tutto, dallo scudetto al quasi fallimento, e per poco non visse come giocatore anche il gol di Fiorini in Lazio-Vicenza per evitare la serie C.

Formidabili quegli anni direbbe Mario Capanna, per uno degli scudetti più incredibili della storia del calcio italiano, ma anche tragici e bui per i dieci anni successivi, anni che è anche difficile spiegare ai ragazzi di oggi che hanno il diritto e il dovere  di conoscere la nostra storia: chiedi chi era Tommaso Maestrelli…li abbiamo pagati cari noi laziali, a prezzi di inflazione, quegli anni impetuosi di una squadra di pazzi, fra il dito di Giorgione puntato alla Sud, le botte in allenamento fra i due spogliatoi, le pistolettate in ritiro, gli scherzi, le magliette della squadra di Topolino, gli alberghi non pagati, i poker durati tutta la notte prima della finale di Coppa delle Alpi.

E’ una storia talmente unica che non potrebbe che essere la nostra, l’abbiamo dentro e nostro malgrado ce la temiamo stretta, anche se come in una sliding doors a volte sogniamo che con Maestrelli vivo, la Lazio con Giordano Manfredonia e tutti gli altri a rinforzare i vecchi del primo scudetto sarebbe diventata l’Ajax della seconda metà degli anni ’70, quella maledetta Coppa Campioni l’avremmo finalmente giocata, e magari saremmo stata la prima squadra romana a giocare una finale col Liverpool nel proprio stadio nel 1977, al posto del Borussia.

Con Vincenzo se ne va un pezzo enorme di quella storia che da quasi 50 anni ci portiamo dietro, ed era un pezzo sempre sorridente nonostante avesse vissuto goccia dopo goccia quegli anni, firmando contratti in bianco per l’amore della maglia, in un alternarsi di emozioni non adatte ai malati di cuore.

E’ morto d’altro Vincenzo perchè ormai aveva il cuore rodato a tutto, uno che ha vissuto quella morte di Re Cecconi come compagno di squadra può superare qualsiasi prova successiva che la vita gli imponga, che a quel punto sarà solo una passeggiata di salute, fino all’ultimo viaggio.

Domani ci sarà la camera ardente, e chi passerà di là avrà per un attimo l’impressione che sia solo uno dei suoi tanti scherzi e che possa saltare giù all’improvviso, farsi dare un pallone e palleggiare davanti ai tifosi in visibilio, con un calzettone sporco di sangue a dimostrare di essere per intero quel 49% di lazialità, ma che domani per un giorno sarà il 100% intero, e forse anche più, nonostante non sia il Chinaglione nostro, Lovati o il Maestro, ma solo un’altra storia di Lazio da raccontare, finché ci sarà qualcuno che potrà farlo. Forza vecchio cuore biancoazzurro.

Alessandro Tozzi

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