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    Quel “ma” che è sempre di troppo

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    Galvanica Bruni

    Partendo dalla storia d’un ministro che si perde senza sapere quanto possa tirare un carro di buoi, ci soffermiamo sull’italica capacità d’essere incontentabili, da bravi italiani.

    Ricordate la pubblicità – in realtà la può ricordare solo chi ha scavalcato gli “anta” – in cui Giampiero Albertini era il capofamiglia degli “Incontentabili”? Ecco, siamo tutti così.

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    Sulle dimissioni di Gennaro Sangiuliano (che sia il Tg2 quanto Alessandro Sallusti, direttore de “Il Giornale”, hanno chiamato Giuliano Sangennaro, invertendo l’ordine di fattori che cambiano il risultato) sono intervenuti in molti, a cominciare da Elly Schlein, che ha decretato il suo “Tardive ma opportune”, riferendosi – appunto – alla destituzione.

    Ecco, quel “ma”

    In Italia non esiste altro che quel “ma”, come a dire “sulla questione voglio aggiungere qualcosa”.  Siamo il popolo che vuole sempre aggiungere ulteriore sale su una minestra già salata.

    “Sinner è bravo ma…”, “I giornali non li legge più nessuno ma…”, “La vacanza è andata bene ma…”, c’è sempre quel “ma” pronto a mutare il senso delle esternazioni.

    Come se si avesse timore di diventare zimbelli dei social perché una frase diretta, esternata senza quel “ma” rischierebbe di portare deficit sotto l’ottica di elettori, like e chissà quale altra diavoleria del comune senso del vivere quotidiano. Perché il “ma” è una sorta di “zeroazerismo”, dico ma non prendo posizione totalitaria.

    E allora che invidia per quella vecchina di “Non ci resta che piangere” quando diceva “voglio bene a tutti e due, ma a Mario un po’ di più”. Inseriva il “ma” nella frase, “ma” almeno prendeva una posizione.

    Massimiliano Morelli

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