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La fraschetta, vino e osterie romane sulla via Flaminia che fu

Carl-Bloch-Osteria-romana
Galvanica Bruni

Il quartiere di Vigna Clara, chiamato anche Vigna Stelluti, prende il nome dalla grande tenuta della contessa Clara Stelluti che comprendeva tutta l’area oggi urbanizzata spingendosi fin giù verso Ponte Milvio. Il primo accesso alla tenuta, fino all’inizio degli anni ’50, era infatti a metà dell’attuale via Orti della Farnesina; proprio in quel punto un grande cancello dava accesso alla tenuta, tutta coltivata a vite.

Là dove oggi ci sono palazzi, negozi e strade affollate in passato c’erano vigne che producevano dell’ottima uva che veniva trasformata in eccellente vino che veniva poi venduto nelle numerose osterie di Roma Nord e dintorni.

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La Via Flaminia dava accesso a Roma e i tanti viandanti che arrivavano nell’area di Ponte Milvio avevano necessità di riposarsi e di riprendersi dal lungo viaggio; si fermavano così in una delle numerose osterie. Locali piccoli o grandi, a volte anche fatiscenti, che esponevano all’esterno un fascio di frasche (ma anche rami di quercia,  olivo oppure grano), il segno inconfondibile che in quel luogo si poteva bere dell’ottimo vino.

Nell’interessante libro di Mario Matteucci, “La Via Flaminia”, c’è un dettagliato elenco di queste osterie con la loro affascinante storia; luoghi di riposo ma anche di perdizione. Come l’osteria sulle pendici di Villa Glori (anche qui c’erano estese vigne) dove l’oste oltre a servire i viandanti li depredava dopo averli uccisi: almeno dieci, confessò, una volta arrestato.

Brutta fine fece l’oste assassino: impiccato e poi squartato. Nella Roma dei papi gli assassini infatti venivano messi a morte come ci racconta il boia Mastro Titta nelle sue memorie; il primo condannato lo soffocò, lo decapitò e il corpo con una accetta lo fece in quattro pezzi, il tutto all’età di 17 anni. Poi un po’ stanco se ne andò tranquillamente a dormire.

Ma torniamo alle osterie. In questi locali si vendeva buon vino anche se spesso l’oste lo annacquava; furono sempre i papi ad ordinare l’uso di contenitori in vetro trasparente per evitare discussioni che potevano poi degenerare. Le misure del vino erano “er tubo, la foglietta, er quartino, er chierichetto, er sospiro”. Con il vino si giocava alla “passatella” che più che un gioco era un vero e proprio rito con la nomina del suo “Re”. Prima della passatella le lame dei coltelli a serramanico venivano infilate nelle fessure del legno ad un capo della tavola e poi tutti si disponevano, di buon animo, a seguire gli ordini del Re. Mai una sbronza o una rissa.

L’uva delle vigne di Roma veniva trasformato in vino che raccolto in una grossa botte era portato alle osterie con il “barroccio”, un carretto trainato da un quadrupede e con due grandi ruote.  Ma con l’arrivo dei piemontesi in città le cose cambiarono un poco; fu introdotto l’uso di servire nelle trattorie cibo e poi anche il caffè.

Chi è che frequentava le osterie? Oltre ai famosissimi poeti romaneschi come Trilussa e Pascarella ovviamente all’osteria andavano tutti, uomini e donne.

Nel libro di Matteucci è riprodotto un quadro del 1866 del pittore Carl Bloch, “Osteria romana”; Bloch è stato un pittore danese autore di numerosi quadri di ispirazione religiosa. Avendo soggiornato a lungo a Roma evidentemente frequentò qualche osteria tanto da averci lasciato uno straordinario dipinto, un vero capolavoro.

Il quadro è come una fotografia dove l’autore è il fotografo; le due donne e l’uomo ritratti seduti al tavolo di una osteria guardano nell’obiettivo della macchina.

Le donne sono bellissime con i loro costumi e la loro espressione è quella divertita e sfrontata delle popolane; l’uomo invece è accigliato, lo sguardo cupo lascia intravedere della gelosia (forse nei confronti del fotografo?), nella tasca dei pantaloni si intravede il coltello a serramanico.

Sulla panca dove siedono le donne c’è anche un gatto mentre alle spalle delle ragazze ci sono tre uomini ben vestiti. Segno che all’osteria non andavano solo poeti e ubriaconi.

Anche le pendici di Monte Mario erano ricoperte di vigne e quindi di osterie come quella della “Culona” o “Lallo”  o “Lino”. Quel piccolo chiosco a Ponte Milvio, al lato della Torretta Valadier, invece non era una osteria, ma fu realizzato ai primi dell’ottocento come deposito di legname e poi deposito per le traversine del tram. Solo in seguito divenne una rivendita di bevande.

Le osterie, presenti nella capitale fino agli anni ’50, oltre a rifocillare i viandanti erano anche un luogo di ritrovo dove parlare, giocare a carte e godere di una certa tranquillità; il per niente astemio Trilussa, grande amico e cliente degli osti, questa serenità così ce la descrive:

“Bevo er vino e guardo er muro,
con un buon presentimento:
sarò sbronzo, ma me sento
più tranquillo e più sicuro”.

La grande epopea delle osterie romanesche, la cosiddetta “fraschetta”, è finita da un pezzo; oggi al loro posto ci sono pub e birrerie; niente a che vedere con rivendite come “L’osteria del tempo perso” dove oltre al vino dei castelli si vendeva anche birra e gazosa.  Gazosa con la “z”.

Francesco Gargaglia

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