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Don Antonio Coluccia, “il prete indigesto”

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Galvanica Bruni

“La mia chiesa è la strada”, così don Antonio Coluccia rinnova il suo patto con la città marginale. O meglio con i bordi della città. Al “prete indigesto” Riccardo Bocca, giornalista d’inchiesta, ha dedicato un libro edito da HarperCollins. Sottotitolo “la vita e le lotte di don Antonio Coluccia”.

Una vita sotto scorta quella del prete salentino sbarcato  nella capitale, a Roma Nord, deciso a sottrarre le ragazze e i ragazzi alla strada.  “Gesù camminava per i villaggi ed io mi devo conformare a Cristo”. E lo ha fatto ovunque sia stato.

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Da Specchia, nel Salento, a Pianura in Campania dove ha sollevato un intero paese contro la camorra, a Roma, a Grottarossa, dove ha fondato la casa di accoglienza Opera Don Giustino, e sempre a Roma, a San Basilio, dove ha appena inaugurato la palestra sociale con l’obiettivo di offrire  un’alternativa di vita ai giovani del quartiere. Una palestra dove allenarsi alla boxe.

“Don Coluccia – dice Bocca che al fianco del “prete indigesto” ha trascorso intere giornate – porta  il Vangelo  fuori dalla Chiesa e lo mette a disposizione del territorio e nel fare questo toglie manovalanza al malaffare”.

Lui, Bocca, don Coluccia lo ha visto all’opera giorno dopo giorno, contendere le notti e i marciapiedi ai trafficanti. Una lotta impari. Si fronteggiano l’antistato che offre reddito, case, assistenza familiare e un prete indigesto armato solo del suo incrollabile ottimismo e della sua straordinaria fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di resistere al male e di ribaltare il male nel bene.

Don Coluccia è il prete antispaccio, conosciuto così nel mondo dei pusher che cerca di riportare sulla strada del lavoro e “della vita”.  Prete indigesto non solo ai venditori di morte, ai clan che si spartiscono le piazze del mercato della droga, don Coluccia riconosce di essere indigesto anche ai neutrali. A quelli che abbassano gli occhi e voltano il capo. “Il silenzio degli onesti – sostiene – credo sia il primo peccato sociale”.

Bocca riconosce che don Coluccia ha la forza e la perseveranza, oltre alla vitalità per sostenere lo sguardo anche di chi è abituato ad abbassarlo. “E si muove con decisione e rispetto  all’interno di una comunità complessa come la Chiesa, senza compromessi, senza piaggeria nei confronti del potere, senza timore di mettere a rischio la propria persona”.

Don Antonio è stato avvertito più di una volta. Eppure lui non smette di frequentare le strade accidentate della capitale, di portare sostegno a chi è stato messo in ginocchio dalla vita, a chi è finito nella rete del malaffare. Lui nei  quartieri slabbrati della sterminata periferia romana è di casa. E c’è per portare oltre alla parola della chiesa e della evangelizzazione, anche quella dello stato.

“Perché – dice – non basta combattere lo spaccio e la cultura della morte con le retate della polizia: qui lo stato deve rifare le strade, accendere i lampioni, aprire le scuole, offrire lavoro, inaugurare biblioteche”.

All’origine del malessere che cova la devianza c’è sempre – conclude Bocca – la disattenzione sociale. E il prete indigesto ha deciso di accendere la luce sulle periferie. Instancabile e irrequieto. Osare, rischiare, compromettersi sono i verbi immancabili del vocabolario di Don Antonio, il prete che ha voluto sporcarsi le mani. (red/RL)

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1 commento

  1. Pur essendo un ateo convinto conservo “religiosamente” sul mio comodino un suo regalo di tanti anni fa. Una piccola croce in legno realizzata dai suoi ragazzi.

    Lo considero un grande uomo.

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