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Roma, il sogno europeo si è avverato

Roma-Feyenoord-Tirana
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Ansia a livelli intergalattici, per la finale di Conference league più ci si è avvicinati al fischio d’inizio del signor Istvan Kovacs e più i minuti sono trascorsi sembrando secoli.

Il popolo romanista, mentre la squadra stava per giocare la sfida delle sfide a Tirana, si è radunato nello stadio Olimpico per assistere “tutti insieme appassionatamente” alla finale col Feyenoord.

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E il solo fatto che sul manto erboso romano neanche ci fosse un pallone da far rotolare, ma sei schermi (i due soliti sopra le curve, poi due davanti la Monte Mario e altrettanti al cospetto della Tevere) per permettere la visione del match in diretta dalla Arena Kombëtare, fa comprendere quanto il tifoso sia fuori di testa. Ma anche legato in maniera viscerale alla maglia.

Cinquantamila cuori in fibrillazione, cinquantamila voci in coro ad affiancare quel “Roma, Roma, Roma” di Antonello Venditti, sinfonia che stanca mai. Sciarpe e bandiere al vento, anzi vessilli, termine amato da uno degli uomini che hanno fatto la storia del sodalizio giallorosso e che purtroppo non ha avuto la fortuna di alzare al cielo una coppa europea, Agostino Di Bartolomei.

Il tempo non passa… ma quanto manca? “Ahò, io sto a impazzì”, il tenore del chiacchiericcio pregara è quello di chi sta per avere quello che gli inglesi definiscono “nervous breakdown”, un esaurimento di nervi.

Qualcuno cerca di dribblare la tensione fumando una sigaretta, ma neanche fa in tempo ad accenderla che la smorza, neanche c’è, poi, quella voglia di far “due tiri a una paglia”. Nulla nello stomaco, se non quelle farfalle che generalmente si sentono quando ci si innamora.

Ma del resto, per questa gente, la Roma non è come una donna da amare? La gomma da masticare, le foto col telefonino, che servono per dire sui social “io c’ero”. L’aroma del “libanese rosso”, qualcuno si sta facendo una canna.

Per quelli che stanno all’Olimpico il commento è in stile “che sfiga, vorei sta a Tirana”; per chi s’è assiepato sugli spalti dello stadio albanese poche chiacchiere e occhi puntati a bordo campo, dove è stata sistemata la coppa.

E vige la speranza che nessuno dei giocatori romanisti la sfiori, perché porta sfortuna carezzarla prima del fischio d’inizio.

Gesti apotropaici a Roma come a Tirana, segni della croce più o meno da chierichetti impuniti sia qua che la. Oltre al prestigio, vincere la coppa significherebbe vendicare i danni causati alla Barcaccia, e ci si sente un po’ ministri della cultura nel difendere un simbolo di Roma che comunque neanche ci si ricorda chi l’abbia creata.

I tifosi da trasferta si fanno sentire, quelli alle pendici di Monte Mario sembrano in trance. Fischio d’inizio, si parte. “Andiamoci a prendere ‘sta coppa”, il canovaccio dei dialoghi è questo; pochi pensano ai “cugini” della Lazio, anche se la programmazione di don Matteo su mamma Rai cade a fagiolo per chi ha la forza di sfottere e non patisce la tensione.

Passa un quarto d’ora e s’infortuna Henrikh Mkhitaryan, “l’armeno che va come un treno” ma che è costretto a scendere alla prima fermata, gli acciacchi si fanno sentire. Entra Oliveira, qualcuno pensa al peggio, all’ennesima scalogna della Roma.
Invece no, il lampo di Zaniolo porta in vantaggio la Roma, tutti a esultare, a Roma e a Tirana, mentre l’esperienza di Mourinho invita alla calma. Assalti innocui da parte degli olandesi, i trigoriani contengono la manovra degli antagonisti di circostanza.

Fine primo tempo, messaggi a destra e a manca, i telefonini bollono… “ho paura finisca la batteria, è quasi morta”. Cantano i tifosi in un Olimpico che pare Trigoria ingrandita, “famme fa un tiro” e “guarda, me so rimaste un paio de sigarette, dopo vedemo de trovà quarcuno che le vende”. Forse è più facile acquistarle a Tirana che nella caput mundi, le cui strade sono vuote come a ferragosto.

Inizia la ripresa, quelli del Feyenoord ripartono a testa bassa, colpiscono un paio di legni, poi s’invoca il Var per una trattenuta ai danni di Abraham. Quelli di Rotterdam avanzano il baricentro, gli italiani tirano su una Maginot elastica, con le punte pronte a scattare verso la metà campo avversaria. Scorrono i minuti, ma in maniera lenta, lentissima.

Escono Zaniolo e Zalewski, entrano Veretout e Spinazzola, i più esperti urlano al vicino di posto “mò guarda che se inventa Mourinho”, quelli in trance manco s’accorgono del cambio. Escono pure gli stanchi Karsdorp e Abraham, il traguardo c’è quasi. Cinque minuti di recupero, quattro, tre… solo la scaramanzia non fa ancora alzare le braccia al cielo, due, uno… è finita. La Roma vince la Conference league. E quasi non ci si crede…

Leonardo Morelli

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