Home CRONACA Vigna Clara, 27 anni fa il giudice Adinolfi sparì nel nulla

Vigna Clara, 27 anni fa il giudice Adinolfi sparì nel nulla

paolo adinolfi
Paolo Adinolfi
ArsBiomedica

Sono passati ventisette anni esatti da quando, in una caldissima mattinata d’estate romana, il magistrato Paolo Adinolfi dopo aver salutato la moglie, uscì dal suo appartamento a Vigna Clara e scomparve.

Era il 2 luglio del 1994, apparentemente un giorno come un altro, ma proprio quel sabato decise la sorte dell’uomo di cui all’improvviso si persero le tracce. La famiglia non ha mai creduto all’ipotesi dell’allontanamento volontario e sua moglie, Nicoletta Grimaldi, e i figli, Lorenzo e Giovanna, lo hanno sempre sostenuto: loro padre, uomo tutto d’un pezzo e profondamente innamorato della sua famiglia, non avrebbe mai potuto compiere un’azione simile.

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Eppure da quel giorno del “magistrato che dava fastidio” – come lo ha definito il giornalista d’inchiesta Fabrizio Peronaci nel capitolo del suo libro che racconta tredici casi romani irrisolti – si sono perse completamente le tracce, come fosse stato risucchiato dal nulla.

Naturalmente la famiglia non crede neanche a questa versione: la scomparsa casuale non è mai stata nemmeno contemplata: Adinolfi, uomo dello Stato, giusto e integerrimo, è stato eliminato.

La verità era da ricercare nel suo lavoro; è per questo che vorrei che si continuasse a cercare, in giro, nelle carceri, perché c’è ancora qualcuno che sa e che non ha mai parlato. Sono certo, certissimo, che ci siano ancora tante persone che ventisei anni fa non dissero la verità e che continuano a mentire” – aveva raccontato suo figlio poco più di un anno fa a VignaClaraBlog.it.

Quello che è certo è che quel giorno si perse tempo, con le ricerche avviate solo dopo 24 ore e intensificate addirittura dopo due giorni, quando il lunedì mattina la notizia finì su tutte le prime pagine dei giornali. Si concentrarono sugli ultimi spostamenti del magistrato, dalla sua casa di Via della Farnesina ai quartieri Prati e Clodio fino ai Parioli, residenza dell’anziana madre.

All’inizio – raccontava ancora Lorenzo Adinolfi alla nostra redazione mia madre, mia sorella ed io abbiamo pensato ad un malore, un colpo di calore che avrebbe potuto provocare uno sbalzo di pressione e magari un’amnesia. Prendeva delle medicine, non abbiamo pensato subito a qualcosa di brutto, ma in ogni caso avrebbero dovuto intensificare le ricerche … ma man mano che le ore passavano divenne chiaro che non si trattava di nulla di tutto ciò …”

Un concorso in magistratura vinto nel 1970, la carriera a Milano, poi di nuovo a Roma al Tribunale fallimentare per dieci anni; al momento della scomparsa Adinolfi era consigliere della Corte d’Appello ma negli anni di Tangentopoli, del processo alla banda della Magliana e dei fondi neri del Sisde, era stato giudice di sentenze importanti che avevano pesano tantissimo sui poteri criminali influenti, sulla politica e sui palazzi giudiziari.

Ed è proprio lì che secondo la famiglia andavano cercati i responsabili della scomparsa del magistrato, famiglia che in tutti questi anni ha combattuto per scoprire la verità e rendere giustizia al proprio marito e padre, vittima, secondo loro, della lupara bianca.

Mio padre è stato un giudice della Repubblica Italiana, come i padri di Tobagi e Calabresi e di anti altri, è uscito per andare a lavorare e come questi padri non è mai tornato a casa. A differenza loro però non ha mai avuto un funeralescriveva la figlia Giovanna, avvocatessa civilista, al Corriere della Sera nell’aprile scorso – I suoi nemici non erano aguzzini barbuti e armati, erano colleghi, avvocati, politici. Era la maledetta mafia, camorra, banda della Magliana che negli anni ’80 e ’90 era infiltrata nel Tribunale di Roma, oramai lo sappiamo tutti.”

La prima indagine, avviata dalla Procura di Perugia nel ’94, fu archiviata in meno di due anni; riaperta dopo pochi mesi – quando il collaboratore di giustizia Francesco Elmo chiese di essere ascoltato sul caso – anche la seconda non portò da nessuna parte e nell’ottobre del 2003 arrivò la richiesta di archiviazione definitiva.

Eppure il pentito in quell’occasione fece accuse precise, indicando la banda della Magliana, che avrebbe agito su ordine dei servizi segreti, come la responsabile della scomparsa del giudice romano. Omicidio mafioso: per la prima volta era stata avvalorata la tesi della famiglia.

La Direzione Investigativa Antimafia cominciò a investigare solo dopo la riapertura delle indagini, con due anni di ritardo quindi, perché fino a quel momento la pista battuta era quella dell’allontanamento volontario – raccontava l’anno scorso il figlio – Non credevo ci avrebbero lasciati soli, mi aspettavo dai colleghi magistrati di papà tutto un altro supporto che invece non c’è mai stato. Nei giorni seguenti la scomparsa diedero tutti la stessa versione, sembrava un copia e incolla”.

Quando entrò in campo la DIA una delle piste battute fu quella dell’Ardeatino, a ridosso delle Mura Latine: si ipotizzò che il giudice fosse stato sepolto nel seminterrato di Villa Osio, conosciuta come Villa Nicoletti, dell’omonimo cassiere della banda della Magliana, ma il corpo non fu mai rinvenuto. Coma anche a nulla portarono le tantissime segnalazioni ricevute negli anni, le lettere anonime, le telefonate, addirittura le ricerche nel Trasimeno.

Voglio che chi sa parli – ha ripetuto più volte il figlio lo scorso anno durante la nostra intervista – il tempo passa e il rischio è che la verità non venga mai più a galla. Invece, anche se non so quando, sono convinto che ci arriveremo. C’è bisogno però dell’aiuto collettivo della comunità: dateci dei segnali, noi non molleremo, né ora né mai, in nome di mio padre.” 

Ancora più severa la figlia Giovanna che nella sua lettera accorata al Corriere conclude: “Quando papà non è tornato a casa lo Stato non ha fatto nulla … ci hanno detto di accontentarci, che era stato fatto il possibile. Oggi dopo 27 anni non abbiamo speranze e come ci suggerì uno dei giudici che (non) indagò all’epoca, non ci resta che sperare nella pietà di chi ha ucciso Paolo Adinolfi e implorarlo di farci sapere dov’è. Vogliamo solo portargli un fiore.”

Ludovica Panzerotto

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