Uscito lo scorso 19 giugno, “Rough and Rowdy Ways”, l’ultimo album di Bob Dylan, è un disco di una bellezza sconcertante e strabordante. Abbiamo dovuto aspettare otto anni – dalla pubblicazione di “Tempest”- per ascoltare nuovo materiale inedito del signor Zimmerman, ma ne è valsa la pena. Eccome!
Dieci canzoni, settanta minuti di parole e musica declinate attraverso un blues ora carezzevole ora sinistro, coniugate con ballate dal sapore country o rock, impreziosite da una caterva di citazioni d’autore e immagini potenti e snocciolate da una voce suadente, onirica e filosofica, a volte sarcastica ed aspra, quasi sorpresa dalle rivelazioni che sta afferrando o stupita dalle dichiarazioni che sta facendo.
Nonostante le “maniere ruvide e chiassose” di questo mondo è possibile approdare ad un’oasi di tenerezza, ritrovare il senno perduto e riscoprire lo stupore dell’amore. Attraverso “strade difficili e turbolente” si può arrivare a tenere insieme passato, presente e futuro, sperimentare azioni in contraddizione fra loro, arrivare a sfiorare quel filo invisibile che unisce ogni persona e provare ad accogliere “la natura nel bene e nel male”, lasciandola parlare “a caso, senza controllo, con l’energia originale”, per citare Walt Whitman, la cui voce viene amplificata in questo album ricchissimo, straordinariamente complesso ed eccezionalmente unitario che ruba il titolo al pezzo country-jodel di Jimmie Rodgers (“My Rough and Rowdy Ways”).
Ma poi? O prima? Il mondo sembra essersi fermato a un lontano e drammatico giorno dell’autunno del 1963… Ma ora ascoltiamo insieme l’album, traccia per traccia.
Mi contraddico? Molto bene, allora mi contraddico, sono largo, contengo moltitudini.
Il titolo della canzone che apre il disco, I Contain Multitudes, è un furto d’amore perpetrato “ai danni” di Walt Whitman, un evidente ed emblematico riferimento alla strofa numero 51 del suo poema “Song of Myself “.
Le parole di questa ballata, punteggiate e guidate dalla chitarra acustica, sono pronunciate con una consapevolezza delicata e piena di sfumature. Ci sono pochissimi “spigoli” in questo pezzo, che può essere letto su due livelli: considerandolo dal punto di vista della biografia e del percorso artistico di Dylan e valutandolo attraverso lo sguardo del poeta del “carpe diem”.
Nel primo caso, sfuggendo ad ogni etichetta possibile e immaginabile, Dylan è stato (ed è) tutto e il contrario di tutto: menestrello, rocker e crooner, fermo difensore della tradizione, impareggiabile avanguardista e rivoluzionario, bigotto come un predicatore di provincia e spirituale come pochi al mondo, spigoloso e intrattabile, “contraddittorio e di molti umori”, con la schiena dritta o voltata verso un’altra destinazione, un inquietante uomo dal lungo cappotto nero o la persona amabile che sorride con dolcezza e imbarazzo alla tua porta.
Ecco, quindi, le sue contraddizioni, le moltitudini che racchiude in quel (non)luogo imprecisato che si colloca a metà strada fra suo il cuore e la sua mente, ecco gli ossimori che accoglie senza riserve nelle sue molteplici esistenze: il signor Zimmerman, infatti, è morto e nato un milione di volte.
Ma (ed è questo il secondo caso), come nel suo “Song of Myself” Whitman celebra se stesso in quanto membro della razza umana, in quanto parte di uno spirito universale che unisce le persone e la natura, così Dylan nella sua canzone fa coabitare serenamente “il cuore rivelatore” di Edgar Allan Poe e “le canzoni d’esperienza” di William Blake, accostando le “sonate di Beethoven” ai “preludi di Chopin”.
Nello stesso verso respirano Anna Frank, Indiana Jones e i Rolling Stones, sulla stessa strada passeggiano “belle cameriere” e “vecchie regine” e nello stesso letto dormono “la vita e la morte”. Oggi, domani e ieri. Cioè nello stesso tempo.
Nemico dei tradimenti, dei conflitti e della vita senza scopo.
La seconda traccia, False Prophet, è un blues cadenzato e sinistro, strutturato su dieci strofe e valorizzato da una chitarra elettrica che – nella parte centrale e in quella finale – si conquista una zona franca nella quale può espandersi senza dover sostenere le parole.
Qui la voce di Dylan, inizialmente e consapevolmente addolorata (“ho aperto il mio cuore al mondo e il mondo è entrato”), si fa man mano sempre più ruvida (“sono nemico del tradimento, nemico del conflitto, sono il nemico della vita non vissuta e senza significato”) e procede per dichiarazioni che includono spigoli (“potete seppellire tutti gli altri” o “cos’hai da guardare? Non c’è niente da vedere”), contengono altre moltitudini (“canto canzoni d’amore e tradimento”) e raggiungono tonalità apocalittiche (“sono qui affinché la mia vendetta si abbatta sul capo di qualcuno”).
La narrazione, da complessa e tortuosa, si fa poi semplice e lineare, conduce fino all’amore (“quando il tuo sorriso incontra il mio sorriso, qualcosa deve pur succedere”) e termina con due versi che da soli fanno della canzone un autentico gioiello (“non riesco a ricordare quando sono nato e ho dimenticato quando sono morto”), lasciando alla fine come un punto interrogativo inespresso: vi ho raccontato che non sono un falso profeta, ma c’è da fidarsi di me?
Anche questo pezzo contempla e regala unità a citazioni e parafrasi pescate qua e là. “Un altro giorno di rabbia, amarezza e dubbi”, che si ascolta nella prima strofa, rimanda al passo biblico: “via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira” (Efesini, 4:31-32). Compaiono, poi, riferimenti alla celebre canzone scritta da Gene Pitney (“Hello Mary Lou”), al classico del Sun Studio firmato da Jimmy Wages (“Miss Pearl”), ad uno dei pezzi più famosi di Roy Orbison (“Only the Lonely”) e al titolo dei uno dei più bei romanzi noir di Raymond Chandler (“A long goodbye”).
La mia personale versione di te.
Se vi sembra inconcepibile che il dottor Frankenstein possa pensare a San Giovanni e Shakespeare strizzare l’occhio a Tony Montana, non avete ancora ascoltato My Own Version of You, la terza traccia dell’album.
In questa ballata, nella quale la voce di Dylan sguazza nelle acque torbide di un sarcasmo calmo e deliberato, mentre si alternano mistero e rivelazione, le immagini si fanno sempre più potenti, fosche ed orride. Si affastellano i riferimenti al Bardo di Stratford-Upon-Avon (“l’inverno del mio scontento”, “puoi spiegarmi cosa significa, essere o non essere?”) e le citazioni cinematografiche (Scarface e il Padrino).
Il protagonista dichiara di essere in grado di ricavare la vita dalla morte (“ho visitato moschee e monasteri alla ricerca delle parti del corpo necessarie, braccia e fegati e cervelli e cuori”), si ritiene capace di assemblare una creatura e poi di costruirne un’altra per distruggere la prima.
A tarda notte, dopo aver fatto un salto all’inferno, dove ha sbattuto Marx e Freud (“alcuni dei nemici più noti dell’umanità”), il creatore ha bisogno di ciascuno, perché ognuno di noi – in ogni tempo e in ogni luogo – racchiude una parte dello “spirito immortale” dell’umanità.
Ho deciso di donarti tutto me stesso.
Avvicinandoci alla parte centrale del disco, ecco una traccia – la numero quattro – che parla d’amore e lo fa in maniera tanto semplice quanto stupefacente.
In sei minuti e mezzo, attraverso nove strofe, ecco schiudersi uno scrigno prezioso di parole ammalianti e note ipnotiche: “ho viaggiato dalle montagne fino al mare, spero che gli dei ci vadano piano con me. Lo sapevo che mi avresti detto sì, e te lo dico anch’io: ho deciso di donarti tutto me stesso”.
I‘ve Made Up My Mind to Give Myself to You è una dolcissima ballata country-rock nella quale la voce di Dylan assume talmente tante sfumature e increspature da tenerti il cuore in ostaggio per tutto il tempo della sua durata. Inoltre, lo stupore aumenta se si considera anche che la musica prende in qualche modo in prestito l’atmosfera e il mood de “La Barcarolle” di Offenbach.
Anche qui fa capolino lo zio Walt perché è facile immaginare che alcuni versi (“il mio cuore è come un fiume, un fiume che canta… Ho visto l’alba, ho visto il tramonto, mi sdraierò accanto a te quando tutti se ne saranno andati”) riecheggino quel connubio fra amore e natura che Withman pennellò nella strofa numero cinque del suo poema: “ozia con me sopra l’erba, rimuovi il groppo dalla gola”.
Er cavaliere nero…
Per un momento, solo per un momento, mi viene in mente l’esilarante storiella di Gigi Proietti, ma poi, non prima di aver pensato per un altro secondo al titolo di un album di Tom Waits, mi rendo conto che questa Black Rider – traccia numero cinque – è una canzone davvero complessa ed atipica, anche per lo stesso Dylan.
Muovendosi su un tappeto di “virgole spagnoleggianti” (non saprei come definire diversamente i punti e i contrappunti disegnati dalla chitarra acustica), il tono di Dylan, prima dolente e conciliante (“sii ragionevole, sii onesto, sii virtuoso, lascia che tutti i tuoi pensieri terreni siano una preghiera”), pur rimanendo suadente e carezzevole, diventa minaccioso (“torna a casa da tua moglie e smetti di far visita alla mia…o prendo una spada e ti taglio il braccio”) ed infine ironicamente intimidatorio: “Cavaliere nero, fermati qui: le dimensioni del tuo uccello non ti porteranno da nessuna parte”.
Una narrazione più che una canzone, un poema alla fine spogliato di ogni elemento epico. Qui non mi pare così fuori luogo citare De André: “è mai possibile, o porco di un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane?”.
Addio, Jimmy Reed.
Traccia numero sei, un inchino per un musicista tanto prolifico quanto sfortunato: Mathis James Reed suonava il blues, sfornò una caterva di canzoni e morì prematuramente per cause legate ad un’epilessia diagnosticata troppo tardi.
Goodbye Jimmy Reed è un blues-rock effervescente ed incalzante, scandito alla perfezione da basso e batteria e spruzzato giusto da un filo d’armonica. La voce di Dylan qui incide e graffia in un milione di modi differenti e pronuncia il discorso d’addio in onore del cantante, deceduto nel 1976. Tutti devono conoscere la sua vera storia e sapere come era capace di parlare alla gente senza inutili fronzoli “in quell’ora mistica in cui una persona è da sola”.
Madre delle Muse, canta per me.
Un accenno di tastiere e una serie di arpeggi per la traccia numero sette, una conferma che l’amore di Dylan per la mitologia è rimasto intatto ed è ancora un fiume generoso dal quale attingere a piene mani.
Mother of Muses è insieme un’invocazione per il presente, una preghiera per il futuro e un ringraziamento per il passato, per l’ispirazione che ha consentito (e consente, e consentirà) a Dylan di cantare a livelli eccelsi di “onore, fede e gloria”.
Così – oltre alle montagne, al mare e ai laghi – nella canzone trovano spazio (fra gli altri) il generale Patton, Elvis e Martin Luther King, tutta gente che “ha fatto quello che ha fatto ed è andata per la propria strada”. Un altro pezzo che, svelandone l’invisibile unità, contiene moltitudini e si conclude in una maniera bellissima, con una richiesta magnifica in cui fanno capolino alcune parole (per così dire “remixate”) di Jimmie Rodgers e, di nuovo, i versi dello zio Walt: “Rendimi invisibile come il vento, ho una mente sconclusionata, una mente che vaga, sto viaggiando leggero e sto tornando a casa lentamente”.
Alea iacta est.
Alla casella numero otto, sul finire dell’album, che riserverà ancora due perle magnifiche, arriva Crossing the Rubicon, l’insistente blues sulle decisioni rispetto alle quali non è più possibile tornare indietro.
Sia lanciato il dado e vada come deve andare, un τόπος delle composizioni (e della vita) di Dylan, qui ulteriormente arricchito da immagini potenti (“Il Rubicone è un fiume rosso che scende dolcemente lungo il suo corso, più rosso delle tue labbra rosse e del sangue che scorre dalla rosa, tre miglia a nord del Purgatorio, ad un passo dal Grande Oltre”) e sempre supportato da una voce secca e sporca, velatamente ironica, che non ammette repliche per il suo carattere definitivo, sia esso una minaccia (“hai contaminato il fiore più adorabile di tutta la femminilità, altri possono essere tolleranti, altri possono essere buoni, io ti farò a pezzi con un coltello ricurvo e mi mancherai quando non ci sarai più”) o una consapevolezza spirituale (“sento lo Spirito Santo dentro di me, vedo la luce che dà la libertà, credo che sia alla portata di ogni essere che vive”). Ancora contraddizioni, ancora ossimori, ancora moltitudini. E una citazione che è anche un’auto-citazione.
Il testo, infatti, includendo “the autumn leaves are gone” (“le foglie d’autunno sono sparite), fa riferimento al brano che Joseph Kosma compose sui versi di Jacques Prévert, uno standard jazz che Dylan ha inciso per “Shadows in the Night”, l’album del 2015 in cui omaggia la tradizione musicale americana.
Key West e il pirata filosofo.
Nove minuti e trentacinque secondi di autentica meraviglia. É difficilissimo scegliere qual è la canzone più bella dell’album e non mi sento affatto obbligato a farlo. Ma, nell’eventualità remotissima per cui qualcuno mi puntasse un coltello ricurvo alla gola e me lo chiedesse gentilmente, sceglierei questa magnifica, infinita ballata intitolata Key West (Philosopher Pirate).
L’isola della Florida è il posto dove andare, il luogo in cui recuperare il senno perduto, la destinazione che racconta una storia che non è ancora finita, dove l’inverno non esiste e la presenza costante del sole è la garanzia dell’esistenza dello spirito immortale dell’uomo.
Ed è, ovviamente, anche un non-luogo nel quale convergono tutte le contraddizioni, il crocevia di ogni possibile ossimoro, il punto di incontro delle personalità più diverse. Il luogo più largo e spazioso di tutti, quello più vasto, quello che racchiude tutte le rivelazioni e ospita ogni mistificazione.
L’omicidio più efferato.
Trattandosi di Dylan, non mi stupisco affatto che l’ultima canzone dell’album sia quella che ha fatto uscire per prima. Ma qui non stiamo parlando solamente di uno “sfizio da bastian contrario” (chiamiamolo così, ma solo per comodità), in questa scelta mi pare di scorgere altro.
Murder Most Foul, che dura quasi 17 minuti e nel titolo cita l’Amleto di Shakespeare, è la fine, ma potrebbe essere l’inizio. Come, al contrario, I Contain Multitudes è l’inizio, ma potrebbe essere la fine.
Questo a causa della capacità che ha Dylan di manipolare il tempo e di miscelare passato, presente e futuro, un’attitudine che si è talmente raffinata che potrei persino dire che in quest’album non c’è principio e non c’è termine. “Rough and Rowdy Ways” è un disco palindromo che si auto-alimenta, si arricchisce in continuazione e non inizia e non finisce mai, non procede lungo una linea retta ma possiede la grazia di un andamento circolare, per così dire.
A ogni modo, l’omicidio più efferato ha una data e un luogo, 22 novembre 1963, Dallas, Texas. Tutto quello che c’è di buono in quel momento e negli istanti precedenti (se scrivessi anni sarebbe la stessa cosa) viene spazzato via da una serie di colpi di carabina. I sorrisi si congelano, le promesse diventano illusioni, il sogno si tramuta in un incubo: John Fitzgerald Kennedy è stato assassinato.
La canzone, sottolineata discretamente dal pianoforte e punteggiata con grazia dal violino, non è soltanto la cronaca drammatica dell’assassinio del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti (con tanto di retroscena “complottisti”), ma è anche un dipinto zeppo di dettagli che raffigura un’epoca (qui le citazioni sono infinite, divertitevi a scovarle) in cui sembrava che la visione di Whitman potesse rivelarsi alla luce del sole e finalmente concretizzarsi.
Per questo (e anche per altre ragioni) l’album è stato ritenuto pessimista relativamente ai tempi, che non sono cambiati. Però, considerato ciò che ho scritto prima riguardo alla circolarità del tempo e all’abilità che possiede di Dylan di manipolarlo, io non ne sarei così convinto. Il finale resta aperto. O l’inizio, che poi è la stessa cosa.
Mi fa piacere segnalare ai nostri lettori Maggie‘s Farm, l’eccezionale sito italiano dedicato interamente a Bob Dylan, creato da Michele Murino e curato nonché diretto dal 2008 da Mr. Tambourine, che non conosco ma che ringrazio con tutto il cuore per la miniera di informazioni sul cantautore di Duluth, Minnesota.
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