Home CRONACA “Mio padre, inghiottito dal nulla”. Parla il figlio del giudice Adinolfi

“Mio padre, inghiottito dal nulla”. Parla il figlio del giudice Adinolfi

Un giudice integerrimo che indagò su tante operazioni finanziarie opache nella capitale. Di lui non si sa più nulla, a parte che scomparve il 2 luglio 1994 uscendo di casa a Vigna Clara

paolo adinolfi
Paolo Adinolfi
Galvanica Bruni

“… Lui aveva preso dall’attaccapanni la giacca blu del completo leggero, indossato su una camicia bianca. Se l’era poggiata sulle spalle, mentre lei lo aveva seguito in ingresso. Si era girato e le aveva dato un buffetto. “Ciao, ci vediamo a pranzo…”.

Comincia così la tragica fine di Paolo Adinolfi, il giudice che nell’estate del 1994, dopo essere uscito di casa, scomparve misteriosamente. Inizia e finisce così la storia di un uomo dello Stato, uomo giusto e integerrimo, sparito un sabato mattina e mai più trovato.

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L’occasione per approfondire la vicenda è la presentazione del libro di Fabrizio Peronaci, giornalista d’inchiesta del Corriere della Sera, “Morte di un detective a Ostiense e altri delitti”, venerdì 28 febbraio alla libreria dell’Auditorium, in compagnia di Lorenzo Adinolfi, figlio del magistrato, e del giornalista Emilio Orlando.

Nel libro Peronaci approfondisce tredici casi irrisolti avvenuti tra il 1990 e il 2000 e il settimo capitolo è interamente dedicato a Paolo Adinolfi, il “Magistrato che dava fastidio”.

La vicenda di Adinolfi non è stata sviscerata con la dovuta forza da chi avrebbe dovuto farlo, è giusto insistere nel tentativo di rendere giustizia ad una famiglia che ha visto uscire un padre di casa e non lo ha più visto rientrare. Le ricerche sono state fatte sempre di corsa e in fretta, è un caso che non è stato approfondito, e poi dimenticato. Ma il dolore non va in prescrizione” – chiosa Peronaci aprendo la serata.

da sinistra: Peronaci, Orlando Adinolfi

Inghiottito dal nulla

A margine dell’evento, Vignaclarablog.it ha incontrato Lorenzo Adinolfi per sentire dalla voce del figlio il racconto di un padre che ha dato la vita per la giustizia, e per capire con lui, oggi affermato avvocato, in quale direzione potrebbe andare la riapertura delle indagini.

“Mio padre era un uomo speciale, una vita spesa per la sua famiglia e per il suo lavoro. Era un uomo dello Stato e un giorno, all’improvviso, è stato inghiottito dal nulla” – inizia a raccontare Lorenzo.

Era il 2 luglio del 1994 quando, in un caldissimo sabato estivo, Paolo Adinolfi, 52 anni, consigliere della Corte d’Appello, saluta la moglie, si chiude alle spalle la porta del suo appartamento in via della Farnesina, a Vigna Clara, ed esce. Non vi farà mai più rientro.

Un concorso in magistratura vinto nel 1970 che lo porta per anni a Milano, poi di nuovo a Roma dove per dieci esercita al Tribunale fallimentare; giudice di sentenze pesanti che, proprio negli anni di Tangentopoli, del processo alla banda della Magliana e dei fondi neri del Sisde pesano tantissimo sui poteri criminali influenti, sulla politica e sui palazzi giudiziari.

Solo un mese prima della sua scomparsa Adinolfi aveva chiesto il trasferimento alla IV Sezione Civile della Corte d’Appello, dopo che, mentre era in ferie, un suo collega aveva annullato una dichiarazione di fallimento a carico della Fiscom, una società in odore di malaffare, facendo infuriare il giudice. “L’aveva vissuta come una sconfitta. Non sua, ma della legge e dello Stato di cui si sentiva servitore” – racconta Peronaci nel suo libro.

Dalla sparizione di Adinolfi sono passati ventisei anni, dieci in più di quelli che aveva suo figlio Lorenzo quando durante un soggiorno studio in Inghilterra, il padre sparì. Tornò subito a Roma ma non lo rivide mai più, né da vivo né da morto.

Ero giovane, ed ero fuori per una vacanza studio. Quando mia madre mi telefonò per dirmi che mio padre era uscito di casa per fare delle commissioni e non era tornato rientrai subito in Italia, ma da quel giorno non lo vidi più”. Quando parla di suo papà Lorenzo ti guarda dritto negli occhi senza distogliere mai lo sguardo, con la stessa convinzione che per 26 lunghi anni lo ha spinto a cercare la verità, a rendere giustizia ad un uomo vittima della lupara bianca”, come Peronaci ripete più volte.

Lorenzo Adinolfi
Lorenzo Adinolfi

Quando mio padre è scomparso – racconta Lorenzo Adinolfi a VignaClaraBlog.it – ero poco più di un ragazzino, ma ricordo che sin dall’inizio la mia famiglia è stata lasciata sola. Con il passare del tempo ho acquisito maggiore consapevolezza di quello che era successo, solo negli anni ho capito l’entità del rischio in cui si può incorrere svolgendo un lavoro come il suo ma all’inizio non me ne capacitavo, mi sembrava assurdo che un uomo dovesse pagare con la sua vita le conseguenze del suo lavoro, onesto e giusto.”

“Non credevo che davvero ci avrebbero lasciati soli, mi aspettavo dai colleghi magistrati di papà tutto un altro supporto, e invece no.  Nei giorni seguenti la scomparsa, i suoi colleghi durante l’interrogatorio diedero tutti la stessa versione, sembrava un copia e incolla. Siamo stati lasciati soli.”

“Le indagini partirono tardi”…

La scomparsa del giudice divenne un fatto di cronaca solo 24 ore dopo, ma sollevò grosse reazioni soltanto il lunedì mattina quando la notizia finì su tutte le prime pagine dei giornali e solo a quel punto, passate ormai quasi 48 ore, le ricerche si intensificarono, concentrandosi sugli spostamenti che quel sabato Adinolfi fece dalla sua casa di Vigna Clara per poi proseguire tra i quartieri Prati e Clodio fino ai Parioli, residenza dell’anziana madre.

“Sono convinto che si sia perso tempo prezioso quel giorno, le indagini sono partite tardi. All’inizio – racconta ancora Lorenzo Adinolfi – mia madre mia sorella ed io pensavamo ad un malore, un colpo di calore che avrebbe potuto provocare uno sbalzo di pressione e magari un’amnesia. Prendeva delle medicine, non abbiamo pensato subito a qualcosa di brutto, ma in ogni caso avrebbero dovuto intensificare le ricerche … ma man mano che le ore passavano divenne chiaro che non si trattava di nulla di tutto ciò …”

Il caso del giudice Adinolfi fu seguito dal ‘94 al ‘96 dalla Procura di Perugia.  L’indagine, dopo essere stata archiviata nel febbraio del ’96, fu riaperta nel giugno dello stesso anno, dopo che il collaboratore di giustizia Francesco Elmo chiese di essere ascoltato sul caso del giudice romano. Elmo sostenne che l’omicidio avvenne per mano della banda della Magliana, su ordine dei servizi segreti, e di fatto avvalorò per la prima volta la tesi della famiglia: omicidio mafioso. Anche la seconda indagine però non portò da nessuna parte e nell’ottobre del 2003 arrivò la richiesta di archiviazione definitiva.

“Solo dopo la riapertura del caso la Dia – Direzione Investigativa Antimafia – cominciò ad investigare, purtroppo con due anni di ritardo perché nella prima indagine l’allontanamento volontario era stato ritenuto il più probabile. Negli anni solo pochi mostrarono davvero interesse nel voler cercare la verità, ed è per questo che voglio ringraziare il Procuratore Alessandro Cannevale, che come noi ha lottato per anni per rendere giustizia a mio padre, un uomo giusto, ma evidentemente scomodo per molti.”

Quando entrò in campo la DIA una delle piste battute fu quella dell’Ardeatino, a ridosso delle Mura Latine: si ipotizzò che il giudice fosse stato sepolto nel seminterrato di Villa Osio, conosciuta come Villa Nicoletti, dell’omonimo cassiere della banda della Magliana, successivamente confiscata e trasformata nella Casa del Jazz.

“Avrei scavato  a mani nude – esclama il figlio del giudice avvilito dal fatto che la famiglia è stata lasciata sola. “In tutti questi anni abbiamo ricevuto tantissime segnalazioni, lettere anonime, telefonate, addirittura c’è stato qualcuno che diceva che il corpo di mio padre fosse stato buttato nel Trasimeno, ma alla fine non si è mai giunti a nulla di concreto e la scomparsa di mio papà resta un mistero. Per trovare la verità bisogna capire che cosa è successo.”

Nelle ricostruzioni che Lorenzo nel corso degli anni ha fatto, c’è un tassello che potrebbe risultare il definitivo, che potrebbe aver segnato la condanna a morte del padre: la bancarotta dell’Ambra Assicurazioni su cui indagava il pubblico ministero milanese Carlo Nocerino al quale il giudice Adinolfi telefonò per dirgli “vengo a raccontarti alcune cose che ho scoperto negli anni”. Tre giorni dopo quella telefonata Adinolfi sparì nel nulla. Telefono sotto controllo?

Questo è uno degli eventi che potrebbe aver causato la tragica fine di mio padre, sono convinto che tutto il suo percorso lavorativo abbia contribuito in tal senso. La sua unica colpa è quella di aver fatto il suo dovere, in tutta la sua vita”.

Lupara bianca

Lorenzo Adinolfi non ha mai creduto alla pista dell’allontanamento  volontario. Suo padre, così innamorato della famiglia, credente e uomo tutto d’un pezzo non avrebbe mai potuto compiere una simile azione. Il giudice è stato fatto sparire. Di questo suo figlio ne è ancora profondamente convinto.

La verità era da ricercare nel suo lavoro.  E’ per questo che vorrei che si continuasse a cercare, in giro, nelle carceri, perché c’è ancora qualcuno che sa e che non ha mai parlato. Sono certo, certissimo, che ci siano ancora tante persone che ventisei anni fa non dissero la verità e che continuano a mentire. La mia paura è che con il passare degli anni, ormai sono tanti, si possano perdere pezzi, tracce, testimonianze importanti che potrebbero aiutarci a ricostruire la sparizione di mio padre. Un uomo non può eclissarsi nel cuore di Roma”.

Riaprire le indagini

Da quel 2 luglio sono passati ventisei anni, ancora troppo pochi perché la famiglia Adinolfi si arrenda. Lorenzo crede ancora, e ci spera, in un’ulteriore riapertura delle indagini, questa volta definitive.

La mia speranza è che dopo tutti questi anni la magistratura di oggi possa aiutarci in questa impresa, gli elementi per riaprire le indagini ci sono, ne sono certo. Non so quando, ma sono convinto che arriveremo alla verità, ma c’è bisogno dell’aiuto collettivo della comunità. Voglio che chi sa parli. il tempo passa, e il rischio è che la verità non venga più a galla”.

Quello che oggi Lorenzo Adinolfi chiede è soprattutto una tomba su cui poter piangere il proprio padre. Pretende il giusto rispetto verso un uomo a cui è stata calpestata la dignità. “La mia ansia di verità è totale, ma oggi io vorrei soprattutto ricordare l’uomo. Un giorno mia madre disse ‘la speranza è il più crudele dei sentimenti’. Datemi dei segnali, noi non molleremo, né ora né mai, in nome di mio padre.”

Ludovica Panzerotto

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