Lui è Phil Palmer, nipote di Ray e Dave Davies che – per chi non lo sapesse – sono stati i membri fondatori dei leggendari Kinks, uno dei gruppi più influenti della storia del rock britannico, e non solo, per molti secondi solo ai Beatles negli anni ’60.
Ma soprattutto, lui è un musicista a tutto tondo, un chitarrista bravissimo e apprezzatissimo a ogni latitudine e che negli anni ha collaborato con gli artisti più disparati, da Bob Dylan a George Michael passando per Eric Clapton, Frank Zappa, Tina Turner, Elton John e moltissimi altri. Per due anni è stato anche al fianco dei Dire Straits, prendendo parte all’ultimo disco – e susseguente tour – della disciolta band capitanata da Mark Knopfler.
Non solo stranieri, però: anche italiani. Lucio Battisti, Claudio Baglioni ed Eros Ramazzotti sono solo tre nomi tra i tantissimi che per mettere meglio a fuoco le loro direzioni musicali si sono avvalsi di questo cittadino del mondo che definire turnista è riduttivo – se non addirittura offensivo – e che ha scelto proprio Roma, e a Roma Ponte Milvio, per stabilirsi a vivere, avendo – tra le altre cose – sposato una donna italiana, la cantante Numa, con la quale nel tempo ha anche collaborato artisticamente.
Noi di Vignaclarablog.it abbiamo colto l’occasione di un incontro a Ponte Milvio – dove Palmer vive e dove è facile incontrarlo – per intervistarlo e farci raccontare come si diventa chitarrista di fiducia dei più importanti nomi del pop e del rock internazionale.
Mr.Palmer, partiamo dalle sue origini. Intanto le chiedo se ha conosciuto i suoi illustri zii e cosa ha imparato da loro
Sono cresciuto insieme a loro, le mie influenze musicali partono da lì. Da ragazzo, la mia era una famiglia molto musicale, e le feste a casa dei miei nonni diventavano sempre un’occasione per i miei zii e zie di esibirsi in qualche modo.
Fui introdotto così alla musica di Eddie Cochran, Jerry Lee Lewis , Buddy Holly e a tutto il primo rock and roll, tutte fonti d’ispirazione anche per i miei zii quando decisero di formare una band. La prima che misero su, intorno al 1960, si chiamava The Ravens.
Quando ha deciso di prendere la strada della musica e perchè ha scelto proprio la chitarra?
Suonavo strumenti a corda già a cinque anni, iniziai con l’ukelele, ma a scuola imparai gradualmente l’arte della chitarra grazie alle prime band. Feci il mio primo concerto a 12 anni; verso i 15, guidato anche dal successo dei miei zii (allora già divenuti i Kinks), decisi che quella era anche la mia strada.
Chi giudica il miglior chitarrista di sempre?
Di nuovo, l’input è arrivato dai miei zii, in particolare Dave, ma l’influenza principale per chi volesse suonare la chitarra negli anni ’60 era Chet Atkins. Credo, tuttavia, di aver cercato di non farmi influenzare da un chitarrista in particolare. Difficile scegliere il più “grande”, su due piedi direi Stevie Ray Vaughn e Jeff Beck.
Suonare jazz, tecnicamente, richiede qualità superiori al rock. Chi ritiene che abbia meglio realizzato la fusione tra questi due stili musicali?
Credo gli Steely Dan: io sono un grande fan di Donald Fagen (cantante e tastierista – nonché cofondatore – della band americana, ndr), un artista davvero originale e provocatorio.
Se si dà un’occhiata alla lista delle sue collaborazioni, c’è di che impallidire. Sono talmente tanti – e di talmente alto rango – i nomi con cui ha lavorato Phil Palmer che uno vorrebbe fargli mille domande, farsi raccontare per filo e per segno i segreti più nascosti di ognuno di loro. Il tempo e lo spazio per farlo, però, sono pochi, quindi ci limitiamo al generale, anche se poi non resistiamo e, almeno in un caso, finiamo per scendere nel particolare.
Lei ha lavorato con tanti musicisti. Ce n’è uno che ricorda in particolare, qual è la collaborazione di cui va più orgoglioso?
Oh, ce ne sono stati molti. Ricordo un pomeriggio, in Giappone, fu un momento davvero speciale. Durante un evento chiamato The Great Musical Experience, ospite dello show, insieme a Bob Dylan, era Joni Mithcell, e io ebbi l’immenso piacere di conoscerla e suonare alcuni dei suoi classici preferiti davanti a lei. Era un vero genio.
Lei suonò con i Dire Straits nel loro ultimo album in studio. Cosa ricorda di quel periodo e perché la band dopo si sciolse?
“On Every Street” era il nome sia dell’album che del tour, che durò 2 anni. I Dire Straits all’epoca erano probabilmente la più grande band del pianeta ed ebbi il grande privilegio di essere invitato a fornire un contributo.
Mark Knopfler decise durante il tour che quello sarebbe stato l’ultimo con i Dire Straits, prima di tutto – credo – perché gli mancava l’intimità del suonare in posti più piccoli e la connessione con il suo pubblico. Non sembrava che gli piacesse suonare nei grandi stadi per il football.
Musica ma anche cinema. Phil Palmer ha lavorato anche con un genio della settima arte quale Stanley Kubrick, mettendo la sua firma sulla colonna sonora del film “Full Metal Jacket”, uscito nel 1987.
Come nacque la sua collaborazione con il regista?
A quel tempo, suonavo con tutti in giro per l’Europa, la mia reputazione come chitarrista era cresciuta al punto che mi invitavano a collaborare nei progetti più disparati. Onestamente, non ricordo molto di quell’esperienza, se non il fatto che Stanley non era lì quando incisi la mia parte e credo di essere stato scelto dalla figlia.
Ma un rapporto particolare Phil Palmer ce l’ha con l’Italia, con Roma e con Ponte Milvio, sia per ragioni familiari che artistiche.
Lei vive a Roma ed è sposato con un’artista italiana. Com’è nata la sua passione per il nostro paese?
Credo in seguito all’album di Lucio Battisti registrato a Londra nel 1980 (si riferisce a “Una Giornata Uggiosa”, ndr). La canzone “Con Il Nastro Rosa” era diventato un classico italiano, ma non ebbi chiaro quanto fosse importante quel brano fino a che non iniziai a venire in Italia regolarmente, nel corso degli anni Novanta.
Fu allora che m’innamorai del vostro paese, della sua cultura, del suo modo di vivere, che ora infatti ho sposato full time.
Nella lunga lista di artisti internazionali con cui ha lavorato ce ne sono molti italiani. Qual è il suo preferito? E’ ancora in contatto con qualcuno di loro?
Beh sì, con la maggior parte di loro direi. Di recente sono andato in tour con Eros Ramazzotti, e attualmente sto lavorando al nuovo album di Renato Zero insieme a Trevor Horn (s’intitola “Zero il Folle” e uscirà a ottobre, ndr), un lavoro di cui abbiamo discusso per più di un anno, scrivendo e accumulando materiale per restituire Renato in una nuova prospettiva. Il singolo (“Mai Più Da Soli”, ndr) è stato pubblicato qualche settimana fa ed è solo un primo assaggio di tutto il resto.
E suoi progetti solisti in cantiere?
Ho scritto un libro intitolato “Session man”, che racconta la mia vita in musica partendo dai primi anni ’70 fino a oggi. Mentre stiamo parlando è in fase di traduzione in italiano, e uscirà in autunno. Ho anche in mente una serie di one man show in collaborazione con il mio vecchio amico Red Ronnie per promuovere il libro.
Da addetto – e che addetto! – ai lavori, Phil Palmer rappresenta senz’altro un punto di vista privilegiato sullo stato della musica attuale.
Ritiene che il rock abbia oggi la stessa rilevanza tra le nuove generazioni che aveva negli anni ’60 e ’70 o appartiene al passato?
Ti dirò una cosa. Nei miei viaggi intorno al mondo, sono sempre colpito dalla quantità di rock che ancora viene trasmesso in radio e che in questo modo viene riscoperto dalle giovani generazioni.
Conferma di ciò è anche il pubblico che segue il progetto che sto portando avanti insieme a Alan Clark e agli altri ex membri dei Dire Straits. La nostra audience è formata sì da fan non più giovanissimi, ma c’è anche una buonissima percentuale di ragazzi che all’epoca in cui la band era all’apice della sua fama non erano ancora nati.
Il primo consiglio che darebbe a un chitarrista alle prime armi?
Impara le basi, suona insieme ad altri musicisti, fidati del tuo istinto e non provare a suonare troppo.
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