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I Pearl Jam a Roma 22 anni dopo l’ultimo concerto

Pearl Jam
Galvanica Bruni

22 anni nel rock sono un’eternità. Per capirci, sono gli anni passati da quando Elvis inventò il genere a quando nacque la new-wave. O quelli che intercorsero tra “Sgt. Pepper” dei Beatles e l’esordio dei Nirvana.

Alla luce di ciò, non è a sproposito che parliamo di evento se ci riferiamo al concerto che i Pearl Jam terranno all’Olimpico il prossimo 26 giugno, 22 anni dopo – appunto – l’ultima volta nella Capitale datata 1996.

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Il quintetto americano sarà in tour per una serie di date senza nessuna impellenza promozionale in particolare. L’ultimo album risale infatti al 2013 e l’ultima pubblicazione ufficiale è stata il film-documentario “Let’s Play Two“, uscito a novembre scorso, che raccontava i due concerti della band tenuti l’anno precedente a Chicago.

Da quasi trent’anni sulla scena, la band nata dalle ceneri di due altri gruppi della scena proto-grunge di Seattle, Green River e Mother Love Bone, torna da noi per la prima volta in un contesto così grande (si annunciano più di cinquantamila spettatori) e in una dimensione lontanissima dall’atmosfera intima e raccolta dell’allora Palaeur.

E come non ricordare la loro precedente apparizione romana tre anni prima, quando fecero da spalla agli U2 al Flaminio per due sere consecutive. Oggi, numeri alla mano, potrebbe tranquillamente essere il contrario.

Perchè i Pearl Jam ci hanno messo così tanto a tornare? Un motivo vero e proprio non c’è. E non è che non amino l’Italia. Solo per riferirci ai tempi più recenti, nel 2006 fecero ben cinque tappe nel Belpaese, con l’appendice del 2007 all’Heineken Jammin’ Festival a Mestre saltata – e comunque recuperata nel tour successivo datato 2010 – solo perchè una tromba d’aria s’abbattè sulla venue (e su noi) a poche ore dall’inizio.

Mentre nel 2014, poche tappe in grandi spazi ma a Roma, per questioni organizzative, vennero preferite Milano e Trieste (quando si dice spalmare bene sul territorio il tour di una band di fama mondiale). In più, se ci mettiamo che l’attività sia in studio che live dei cinque guidati da Eddie Vedder si è diradata negli ultimi lustri, ecco che ci vuole poco a fare ventidue (anni).

Eddie Vedder, ecco. Probabilmente negli ultimi tempi ha fatto parlare di sè più per i suoi progetti solisti che per le (prescindibili) cose fatte con la sua band: e quando parliamo di Vedder solista non ci si può non riferire alla meravigliosa colonna del film “Into the wild”.

Ma anche “Ukulele Songs” fu una bellissima sorpresa nel 2011, così come stupenda è stata la sua ultima esibizione in Italia l’anno scorso a Firenze, quando fece piangere dall’emozione i 55mila della Visarno Arena suonando in acustico.

Magia pura. Che negli anni coi Pearl Jam è stata accompagnata dai grandi musicisti che formavano la band: Ament, Gossard, Cameron (da subentrato nel 1998, dopo altri quattro batteristi) e McReady sono ormai per molti l’equivalente rock di “Sarti, Burnich, Facchetti…” o “Zoff, Gentile, Cabrini,…”.

Insieme al leader e cantante hanno scritto pagine leggendarie. Tutti li conoscono e tutti li amano. I primi tre album dell’ensemble – “Ten“, “Vs.” e “Vitalogy” – formano una delle trilogie più celebrate del rock. Nell’universo dei significanti e significati, quando si parla di grunge i primi nomi che il cervello gli associa sono loro e i Nirvana. Solo dopo si può sciorinare tutto il rosario fatto di Soundgarden, Alice In Chains, Mudhoney, Screaming Trees, Temple Of The Dog, ecc.

Ma anche dopo l’esaurimento della scena di Seattle, i Pearl Jam hanno continuato a contare. Perlomeno fino a “Yield“, del 1998. Poi, com’è normale, la flessione: naturale, fisiologica, annunciata.

Tre dischi con meno squilli e a seguire l’inizio della parabola discendente, col tentativo non troppo dignitoso di agguantare nuovi fan fra le giovani schiere dando alle stampe lavori più easy-listening e non pienamente rispettosi della loro storia. Oggi comunque i PJ sono un classico e fanno parte della cultura di massa.

E forse il fatto di non dover presentare materiale nuovo ma solo autocelebrarsi nel tour che sta per iniziare potrà farci tornare per una sera ai fasti dei tempi andati.

Sarà bello urlare di nuovo al cielo i testi di “Alive”,Better Man”, “Go” e “Given To Fly”, consapevoli – come sempre quando si parla di carriere pluridecennali – che stavolta non rischiamo di rivederli tra altri 22 anni: rischiamo di non rivederli più.

Valerio Di Marco

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