Home TEMPO LIBERO Bob Dylan, la leggenda fa tripletta all’Auditorium

Bob Dylan, la leggenda fa tripletta all’Auditorium

bob dylan
Galvanica Bruni

No, ragazzi, questo è Bob Dylan e quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda“, si potrebbe dire parafrasando una delle battute più significative de “L’Uomo che uccise Liberty Valance”, il pregevole western diretto da John Ford con protagonisti Jimmy Stewart e John Wayne.

Sì perché il percorso umano e artistico di Robert Allen Zimmermann – nato a Duluth, Minnesota, il 24 maggio 1941 – si intreccia inesorabilmente e più volte con la leggenda e nessuno può farci niente, nemmeno lui, nonostante la sua prevedibile contrarietà a questo approccio.

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Cantautore, scrittore, poeta, attore, pittore, scultore e conduttore radiofonico, Bob Dylan farà tappa all’Auditorium Parco della Musica nella prossima primavera e accompagnato dalla sua band si esibirà il 3, 4 e 5 aprile (sempre con inizio alle ore 21) all’interno della Sala Santa Cecilia, portando con sé una ventina di canzoni, quelle del suo passato remoto e quelle più recenti, relative alla sua produzione da crooner e al suo singolare viaggio all’interno della musica tradizionale americana.

Asciugò la musica scolpendo le parole

“Singolare”, peraltro, insieme a “straordinario”, sembra essere uno dei termini che meglio gli si adatta.

Raccogliendo la lezione di Woody Guthrie, Dylan riscrisse l’alfabeto, la grammatica e la sintassi della musica folk asciugando la musica e scolpendo le parole, un lavoro di sottrazione che è diventato un paradigma irrinunciabile per un esercito di seguaci adoranti che, nonostante i cambiamenti e i decenni, continua a marciare sopra la madre terra anche nell’epoca dei talent e del digitale.

Quando, poi, il pubblico mostrò di abituarsi alla sua rivoluzione minimalista, che dall’ambito individuale deflagrò in quello sociale e che fu in grado di affrancare la mente di ognuno (ché alla liberazione del corpo ci stava già pensando Elvis), Bob Dylan girò l’angolo e attaccò la spina.

Leggendari, epici, incredibili furono quei suoi tantissimi concerti in cui, dopo un osannato set acustico, arrivava un contestatissimo set elettrico con la Band.

Discussioni, sul palco e fuori dalla scena, duelli estenuanti con i giornalisti e con tutti quelli che già gli avevano affibbiato un’etichetta (o lo consideravano un bluff) e volevano vederlo replicare in saecula saeculorom quello schema che includeva solo una chitarra acustica, un’armonica a bocca e una voce spigolosa.

Quando passò dal folk al rock

Il leggendario passaggio di mr. Zimmermann dal folk al rock fu una scelta coraggiosa e singolare,  una svolta clamorosa sorretta da una tenacia straordinaria e portata avanti grazie ad una testardaggine eccezionale.

Ma come diavolo puoi sottrarti quando il mondo è ai tuoi piedi? Così è, se vi pare, perché per lui si trattava di “intrattenimento” e “anche i ragazzi della band dovevano guadagnarsi da vivere“. E, se la spiegazione non vi ha convinto, peggio per voi!

Come se tutto questo non bastasse, una volta ottenuto il suo scopo anche come capobanda, il menestrello di Duluth si impegnò in una lunghissima battaglia per demolire il suo mito ed ammazzare i suoi stessi brani, che il pubblico non doveva riconoscere subito e che, di sicuro, non doveva cantare insieme a lui.

Ecco, allora, nuovi arrangiamenti, ma soprattutto ecco mille e uno modi differenti per approcciarsi alle note e farci a cazzotti, scegliendo un’entrata fuori tempo, magari con un sussurro rauco troppo breve o eccessivamente prolungato, magari con un parlato non propriamente orecchiabile.

Il “never ending tour” fino al Nobel

Nel frattempo, lungo una strada segnata da tante altre svolte e dall’aura della leggenda, arrivano le poesie, i libri e le partecipazioni ai film, si affastellano i dischi e si allunga ulteriormente il “never ending tour”, che lo vede calcare i palchi di tutto il mondo.

Si festeggiano con performance indimenticabili gli ottant’anni di Frank Sinatra (cercatevi su youtube l’esecuzione di “Restless Farewell“) e le nove decadi di Tony Bennett (la sua “Once Upon a Time” lascia senza fiato).

Ancora una volta scelte spiazzanti, chicche straordinarie anche nei dischi meno riusciti, e finalmente ecco il premio Nobel per la letteratura, per il quale era in lizza da anni.

Un riconoscimento contestato da alcuni, molto criticato anche da scrittori importanti, ma che per la sua motivazione (“per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione della canzone americana“) a noi non lascia alcun dubbio.

Leggenda era, leggenda è

Ora, sarà pure vero che il cantautore americano di questi tempi è un po’ arrugginito, che la sua iperattività non è che gli giovi tantissimo e che la sua voce più di qualche volta gracchia invece di graffiare, ma, ragazzi, questo è Bob Dylan e quando la leggenda diventa realtà vince la leggenda.

Non perché gli si voglia perdonare qualcosa (mica ci azzardiamo ad avvicinarglisi così!), ma perché quando lo vedi su un palco senti – intatto e vibrante – tutto il suo eccezionale carisma, perché anche se lui si è speso tantissimo per demolire il proprio mito, la leggenda continua ad alimentarsi e perché, se cercate sul vocabolario, un sinonimo di “leggenda” è “racconto tradizionale”.

E lui è ancora pronto a raccontare una storia, a scrivere un nuovo capitolo, a scolpire nuovi versi, incluse le parole che crooner come Sinatra e Bennett hanno regalato al mondo.
Poi dici che uno non s’inchina.

Giovanni Berti

Sala Santa Cecilia
3,4,5 aprile ore 21
Biglietti in vendita su http://www.ticketone.it/.

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