Nel 1956, per amore di Marisa Allasio, Renato Salvatori minacciava di scavalcarne il parapetto e gettarsi di sotto. Oggi, per amore di un’ignota, un altrettanto ignoto writer vi scrive con la bomboletta spray che ha bisogno di lei, in modo da rendere anche noi partecipi di questo suo immenso buco nell’anima.
Ne sono passati di anni da “Poveri ma belli“, il film di Dino Risi che raccontava l’amore di due giovani romani di periferia per la stessa ragazza, e non solo il vandalismo nella Capitale è aumentato ma anche le dimostrazioni d’amore si sono fatte meno impegnative.
La scritta campeggia a caratteri cubitali sulla parte centrale della spalletta interna di Ponte Flaminio. Quello di cui non c’era bisogno, tuttavia, era l’ennesima dimostrazione di dabbenaggine di chi, in barba alla bellezza artistica, nonchè delle più elementari regole di convivenza civile, deturpa le nostre opere d’arte per lasciare un segno della propria, prescindibile, esistenza.
E non è l’unico, perchè da un rapido sguardo su tutta la parte centrale della balaustra si notano scritte anche più datate, nel vero senso della parola poichè alcune recano giorno, mese e anno dell’iscrizione.
La maggior parte, tuttavia, sono concentrate sulle colonne e sui pilastri che ornano il ponte, ma ogni superficie è buona per imbrattare, basta che sia liscia e sufficientemente estesa.
La maggior parte degli scarabocchi si concentra sul parapetto rivolto a ovest, quello che affaccia su Ponte Milvio e Stadio Olimpico, per intenderci.
Forse perchè più immediato da raggiungere per chi viene in auto o in motorino e può lasciarli parcheggiati su Lungotevere Salvo D’Acquisto o dell’Acqua Acetosa.
Sta di fatto che il campionario di scempiaggini è pressochè completo: parolacce, disegni volgari, frasi demenziali, messaggi melensi che capiscono solo gli interessati: sì, l’umanità in mostra sul ponte è varia, esattamente come i modi per svelare al mondo la propria mediocrità.
Si potrebbe suggerire ai “disperati” d’amore in cerca – questa sì disperata – di visibilità di usarlo come il Ponte d’Ariccia, tanto più che qui la rete di protezione antisuicidi non c’è.
Oppure si potrebbe suggerirgli di rivolgere le proprie velleità comunicative alle piazzette virtuali dei social, dove la stupidità – seppur amplificata dall’eco internettiano – non gode del beneficio della memoria.
Memoria che invece è rappresentata da quest’opera imponente, grandiosa, forse anche un po’ kitsch. Percorrerla, che sia provenendo da fuori Roma o dai Parioli, mette quasi in soggezione. Ci sentiamo come delle palline in un gigantesco biliardino, come degli intrusi che s’infilano là dove osano le aquile.
Le aquile, sì. Quelle in marmo piazzate sulle colonne che sovrastano il ponte e che ti squadrano mentre passi, come a decidere della tua sorte. Sembrano sfingi e fino all’ultimo ti chiedi se ti lasceranno passare o ti disintegreranno con il loro raggio fotonico che parte dagli occhi.
Quei vandali dal pennello facile le hanno sfidate e chissà che adesso non incomba su di loro qualche maledizione. Per ora restano le scritte: stupide, pietose, arroganti. Poveri ma belli? Sicuramente poveri, ma di senso civico e originalità.
Quando Risi girò qui parte della sua pellicola, tra le primissime a far da ponte (è il caso di dirlo) tra neorealismo e commedia all’italiana, le scritte non c’erano. I 255 metri di lunghezza del raccordo in calcestruzzo esaltato dal bianco rivestimento in travertino erano intonsi, bianchi come la neve.
L’opera risale all’epoca fascista e fu concepita per dare sbocco verso il centro di Roma al traffico proveniente dalle vie Cassia e Flaminia. Stilisticamente doveva simboleggiare i fasti della Roma imperiale ricollegandoli idealmente a quelli – auspicati – del Ventennio.
E come tutta l’architettura mussoliniana, rispettava i canoni del razionalismo applicato alla grandeur e alla potenza dei simboli. Stranamente, rispetto ad altri monumenti risalenti a quel periodo, questo è stato meno al centro degli strali antifascisti nel corso degli anni.
Per dire, nessuno ha mai proposto di rimuoverlo come è stato suggerito per l’obelisco davanti allo Stadio Olimpico. E nessuno storce il naso se lo si definisce bello, a differenza di quanto avviene con l’EUR. Anzi un totem della sinistra come Nanni Moretti, nel suo film “Caro diario” arrivò a dire che gli piaceva così tanto da doverlo percorrere almeno due volte al giorno.
L’idea di un’opera di siffatta grandezza fu dell’architetto Armando Brasini, che in quanto a megalomania e deliri di grandezza superava perfino il Duce.
Il suo progetto iniziale prevedeva infatti anche la costruzione di un grande arco trionfale a metà passaggio. Ma sarebbe costato troppo e i tempi si sarebbero allungati, pertanto si decise per il ponte e basta, peraltro arricchito da fusti e piloni con suggestivi lampioni posti sulla loro sommità.
I lavori iniziarono nel 1938 e furono interrotti nel 1943 a seguito dei bombardamenti alleati. Ripresi nel 1947, terminarono nel 1951. Qualche anno dopo un danno alla struttura rese necessario un ulteriore intervento che terminò nel 1964, quando ormai l’importanza strategica dell’opera era andata scemando visto che sia il GRA che l’aeroporto di Fiumicino provvedevano abbondantemente allo smistamento del traffico in entrata nella Capitale.
Ma la straordinarietà del monumento resta, così come le aquile, in perenne vedetta dall’alto.
Valerio Di Marco
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E pensare che è stato ripulito pochi anni fa.
Sentiremo ancora qualcuno che in TV o sulla carta stampata
blatera del paese più bello del mondo.
E vi siete scordati i lucchetti su Ponte Milvio ?
Venne pensato come l’ingresso monumentale alla città. All’epoca, traversandolo, si abbandonava l’agro Romano per approcciare la Città Eterna. Prima del ponte c’erano solo campi, casolari qualche villa, al di là del ponte una periferia ricca e ancora poco densamente popolata (sebbene in via di espansione). La vocazione agricola delle zone a nord del ponte è ancora deducibile; per esempio guardando i bassorilievi sul palazzo che ospita la T-Bone Station e che raffigurano una donna in posa classica che stringe un fascio di messi. I colossali lampioni erano dei “fari” per chi arrivava Roma. Forse è una stuttura pesante, eccessiva ma – il concetto alla base – era nobilissimo e grandioso!