Dal 15 al 21 settembre, nel Museo Crocetti – via Cassia 492 – mostra personale di Gencay Kasapçi, nota artista turca, dal titolo “Zero 1960 – 2016“.
L’inaugurazione si terrà giovedì 14 settembre alle 17.30. La mostra, a ingresso gratuito, sarà visitabile da lunedì a venerdì in orario 11-13 e 15-19. Il sabato dalle 11 alle 19. Domenica il museo è chiuso.
L’artista
Il profilo dell’artista è a cura di Leonardo Regano.
E’ il 1959 quando Gencay Kasapçi giunge in Italia. Giovane studentessa, appena diplomata all’Accademia di Belle Arti di Istanbul, probabilmente Gencay non avrebbe mai immaginato quanto questa esperienza italiana l’avrebbe cambiata, trasformandola in una delle più raffinate interpreti del clima modernista che scuoteva in quegli anni l’Europa.
Dopo un breve periodo trascorso a Firenze, Gencay decide di spostarsi a Roma, dove si ferma per quasi un decennio, fino al 1968, anno del suo ritorno definitivo in Turchia.
E la Capitale, città cosmopolita, così ricca di stimoli e opportunità per una giovane artista, si mostra subito pronta ad accoglierla. Un clima di positività permeava la società italiana.
Erano gli anni del boom economico, della FIAT 600 prodotta nel nuovo stabilimento di Mirafiori, dell’ENI di Enrico Mattei, delle grandi aziende italiane di elettrodomestici. Ed erano gli anni d’oro di Cinecittà.
Non si può dimenticare che quella che ha conosciuto Gencay, era la Roma dei divi di Hollywood e della Dolce Vita. Era la Roma che si lasciava alle spalle le asprezze del Neorealismo e iniziava a sognare con il cinema di Michelangelo Antonioni e di Federico Fellini.
All’intimismo e alle poetiche crepuscolari ora si contrapponevano le arditezze del Gruppo ‘63, deciso assertore di una letteratura e un’arte che celebrasse il progresso industriale e l’avvento della società di massa. Di lì a poco questa crescita economica e culturale avrebbe invertito la tendenza per trasformarsi, a fine decennio, in quel lungo periodo di conflittualità sociale che ha portato il nostro Paese sull’orlo della guerra civile. Ma in quel momento, nessuna ombra era concessa a questo diffuso sentimento di ottimismo.
L’Italia degli anni Sessanta, era un Paese che si organizzava su nuovi modelli di lavoro collettivo imposti dallo sviluppo tecnologico e industriale; la protesta e la sfiducia del singolo, così come ogni forma di individualismo non erano più comportamenti socialmente accettati. L’autoesclusione dalla società moderna era ritenuta destinata al fallimento.
E anche tra gli artisti si seguiva questo modello corporativo e si creavano gruppi e alleanze. La socializzazione divenne elemento fondamentale nell’esperienza creativa. L’obiettivo era superare l’impasse dell’informale – corrente per vocazione intimista e individualista – risolto attraverso una spersonalizzazione del soggetto creatore che poteva essere raggiunta in vari modi ma principalmente scegliendo o la strada delle emergenti poetiche neo oggettuali, per esempio proponendo una riproduzione meccanica dell’oggetto senza alcun intervento autoriale riconoscibile come suggeriva lapop art nella sua accezione americana, oppure continuando sulla via dell’astrazione, basandosi però su escamotage capaci di privare il gesto pittorico di ogni “sentimentalismo”.
Una soluzione era data dalla reiterazione ossessiva di un principio compositivo e formale nella realizzazione del lavoro che conduceva la pittura verso esiti gestaltici o optical, oppure scegliendo complicate regole matematiche o dinamismi meccanici, come suggerivano le nuove correnti programmate e cinetiche.
La convivenza tra queste due tendenze non era priva di polemiche e contestazioni. Celebri quelle sorte in occasione della IV Biennale di San Marino (1963) e della successiva Biennale veneziana del 1964.
Ma tornando alla Roma di Gencay, i pop si riunivano attorno alla galleria La Tartaruga di Plino De Martiis, dando vita allaScuola di Piazza del Popolo; i sostenitori delle teorie gestaltiche, trovarono invece in Carlo Giulio Argan un punto fermo imprescindibile, critico promotore del Gruppo 1. Senza dimenticare che l’ambiente culturale della Capitale subiva anche l’influenza delle nuove correnti che arrivavano da Milano, quella di Azimut in testa, dove la connessione con le nuove Avanguardie europee era decisamente più salda.
Sarà, però, Roma a ospitare la prima mostra in Italia di Zero, organizzata alla galleria LaSalita di Gian Tommaso Liverani, dal titolo Mack + Klein + Piene + Uecker + Lo Savio = 0. Nell’ottobre del 1962 arriva anche l’Arte Programmata teorizzata da Bruno Munari e Umberto Eco (1962) presentata prima a Milano, in maggio, nello Spazio Olivetti di via Vittorio Emanuele.
Cruciale, in quegli anni, anche la presenza in città di un autore come Nobuya Abe, in continuo dialogo con i colleghi milanesi – Manzoni e Fontana in primis – ed europei, ai quali forniva il confronto con la nuova avanguardia che proveniva dal Giappone.
E proprio Nobuya Abe ci riporta alla giovane Gencay, che per anni sarà la sua assistente e collaboratrice. I primi lavori realizzati in Italia da Gencay Kasapçi si rivelano ancora saturati di una componente figurativa, anche se mantenuti sempre in bilico tra realismo e astrazione. Si tratta di un nucleo di vedute urbane aventi come soggetto Roma e Firenze, in cui il gesto dell’artista si traduce in colate di inchiostro rapide ed evanescenti, di chiara ascendenza informale.
La sua prima personale in Italia, tenuta alla Fondazione Ernesta Besso, sarà ancora improntata su questa ricerca. Intanto Gencay conosce e frequenta l’ambiente culturale romano e italiano. Incontra Lucio Fontana, Mimmo Rotella, Piero Dorazio, Roberto Crippa, Natsuko Toyofuku ed Enrico Castellani.
Già l’anno successivo, alla Galleria Del Cavallino, a Venezia, Gencay mostra uno stile radicalmente cambiato. Segue nel 1963, un’altra importante occasione di esporre, questa volta alla galleria di Liverani, a Roma. Tre di questi lavori, rimasti di proprietà del gallerista, sono entrati a far parte delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, presenti nel fondo di opere donate al museo romano alla morte di Liverani.
In poco tempo, Gencay diventa un’autrice matura, con una ricerca accettata e riconosciuta all’interno delle avanguardie europee come dimostra la sua partecipazione ad Avant-garde Zero 1966, tenutasi nella galleria romana Il Segno.
Il suo lavoro entrerà così in dialogo con quello di autori come Fontana, Castellani, Manzoni, Klein, Soto, Piene, Mack e lo stesso Abe.
Gencay Kasapçi ha messo a punto uno stile nuovo, originale che ancora oggi porta avanti nonostante le evidenti difficoltà riscontrate al suo ritorno in Turchia, dove trova un gusto collettivo ancora poco incline ad accettare un linguaggio così d’avanguardia.
Nella sua pittura si condensa il gesto reiterato e l’accostamento di forme tipiche dell’arte gestaltica, la tradizione del decorativismo musivo bizantino, la sapienza della filosofia orientale trasmessa da Abe. Tre elementi che fanno dell’arte di Gencay Kasapçi la sintesi perfetta tra Occidente e Oriente, quella congiunzione tra popoli e culture che è specchio delle sue origini mediterranee.
Pur nella loro rigida intelaiatura geometrica, i suoi lavori non hanno mai perso spontaneità e immediatezza. La sua è una pittura modulare, che si fonda sulla ripetizione costante del punto, scelto come elemento geometrico puro.
In questa sua ripetizione, ogni piccolo punto perde la sua singolarità e si associa in un insieme più grande, dando vita a nuove forme autonome. Archi, cerchi, strisce che a loro volta si ripetono sulla tela. È il fenomeno che nella gestalt è identificato con i principi della prossimità e della buonacontinuità. E queste nuove forme che si creano sulla retina suggeriscono in chi guarda un’esperienza sensoriale ed emotiva, non solo ottica e mentale.
Questo perché in quei suoi punti, Gencay riversa anche una forte carica simbolica. «Il punto per me – mi racconta Gencay – rappresenta l’idea del principio della vita; gli embrioni all’inizio del loro sviluppo non sono altro che piccoli puntini; venendo al mondo l’individuo cresce e si perde tra le gente e le masse, diventando una seconda volta un piccolo puntino».
Gencay nutre la sua arte di forti riflessioni esistenziali, considerazioni sulla vita intesa come un ciclo continuo di nascita, crescita e morte e di connessioni tra l’uomo e l’universo. Un idealismo che rende il punto di Gencay quasi discendente dalle teorie dell’Ensō giapponese.
Una connessione che, in maniera consapevole o meno, le poteva essere giunta attraverso gli insegnamenti di Abe, nella cui pittura torna spesso il simbolo del cerchio (o dello zero, se si preferisce). La forma del cerchio, chiamata Ensō, è un elemento ricorrente nella tradizione Zen e coincide con “l’espressione del momento”, in cui la mente si lascia andare e il corpo si congiunge allo spirito in un atto creativo. Esso simboleggia anche la forza dell’universo, il conseguimento dell’illuminazione. L’essere nell’attimo, consapevoli di quello che si sta vivendo.
Concetti che fanno tornare alla mente proprio le parole che Nobuya Abe scrive nel manifesto del gruppo Illumination (1967): «L’essere coscienti: strana cosa. Ma il fatto che l’uomo abbia la coscienza significa che egli ha visto la situazione del suo tempo. Luce fioca, luce brillante».
E Gencay, oggi donna matura, è sempre stata consapevole del proprio tempo e delle proprie capacità, così come della sua arte che è quanto, dopo più di cinquant’anni da questo meraviglioso periodo romano, le riempie la vita ancora di gioia. (di Leonardo Regano)
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