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La Storta, accampati a Casale San Nicola

Galvanica Bruni

campo240.jpgMentre un folto gruppo di cittadini questa mattina bloccava la Cassia all’altezza de La Storta per dire no al centro di accoglienza profughi che dovrebbe essere ospitato nell’ex scuola Socrate di Casale San Nicola, il clima che si respirava nel piazzale davanti l’edificio in corso di ristrutturazione era diverso. Lì si è creato una sorta di accampamento di senza casa che tentano di dire la loro.

Da circa 6 giorni lo spiazzale sterrato di fronte alla scuola ospita infatti una decina di tende da campeggio, all’interno delle quali persone che vivono il disagio di non aver più una casa, un lavoro ed il sostegno delle proprie famiglie, a volte troppo lontane per dar loro conforto morale. Sono tutti cittadini italiani, non nomadi o extracomunitari.

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“Rom?!” – esclama un signore uscendo dalla sua tenda – “Ma se io sono di Trastevere! Più romano di così si muore!”. Ci racconta di aver perso la casa dopo il fallimento di una ditta di scommesse presso cui lavorava da tempo. “Ho 44 anni e non ho una famiglia, da quando mi hanno licenziato vivo alla giornata, non ho nulla da perdere ormai”.

Sono un bel po’ le famiglie con bambini che si trovano davanti all’ex scuola Socrate, attendono lì silenziosi e chiedono al Campidoglio che venga assegnato loro un alloggio, anche temporaneo o condiviso se necessario.

La maggior parte di queste persone lavora e non può permettersi di stare tutto il giorno accampata: così, alle prime luci dell’alba, smontano la tenda, portano i figli a scuola coi mezzi e si dirigono verso Lunghezza, Primavalle, Torrevecchia e Ottavia, per poi tornare a San Nicola dove, muniti di viveri e sacchi a pelo, tirano su nuovamente la propria tenda.

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Famiglie intere si sottopongono ogni giorno alla stessa tratta pur di farsi assegnare una sistemazione. Per queste persone la scuola Socrate rappresenta una presa di posizione verso i propri diritti, ma non escludono il compromesso e la tolleranza verso gli altri.

“La gente qui non vuole occupare l’edificio per intero o manifestare scendendo alle mani, anche quando arriveranno i profughi, rimarremo fuori dalla scuola. Anzi chiediamo la possibilità di condividere gli alloggi con i rifugiati”, sostiene Nicola Colosimo, portavoce di “Nessuno tocchi il mio popolo”, stamattina presente sul posto.
Lui e altri ragazzi fanno a turno con auto e motorini per accompagnare le persone verso il centro abitato, dal momento che molti dei “campeggiatori” non hanno nemmeno i mezzi con cui muoversi.

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Non c’è luce o acqua corrente nel campo, le persone si arrangiano come possono durante la permanenza, improvvisando braciate notturne per la cena. Per lavarsi si usano bottiglie d’acqua alla buona; così, mentre si lava i denti, una signora ci spiega la sua condizione.

“Sono originaria colombiana certo, ma ho cittadinanza italiana, vivo qui da 15 anni pagando i contributi e arrangiandomi a lavorare come posso. Sono sempre stata in regola rispettando la legge italiana: anche lo Stato, come sua cittadina, deve tutelarmi ora”.
Sono due anni che non ha casa, la ospitano amici in giro per Roma, ma sogna di ricongiungersi al marito e a suo figlio in Colombia, dove sono rimasti in attesa che lo Stato italiano assegnasse loro una casa.

“Anche in Colombia c’è la guerra, non come quella da cui scappano i rifugiati politici, però perché io devo vivere questo dramma abbandonata dalle istituzioni, mentre quello dei richiedenti asilo viene compreso? Qual è il criterio per l’attribuzione della casa?”, si domanda l’intervistata.

Le persone che da giorni presidiano davanti al Socrate sono famiglie italiane, alcune di Roma, altre originarie straniere ma tutte con documenti in regola. Da tempo molti di loro dormono in macchina, in albergo o a casa di amici e parenti.
“Sono stata per due anni in un hotel” – esclama una donna italiana di origine albanese – “Non posso più permettermelo però. Sono più di 10 anni che vivo in Italia lavorando, mi sento abbandonata da questo paese”.

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C’è chi lavora, chi vive nella disoccupazione e chi risulta cassaintegrato. Fra questi, un signore di origini ecuadoriane.

“Sono in cassa integrazione da 3 anni ormai. Con il fallimento della mia società edile non riuscivo più a pagarmi le bollette e l’affitto. Negli ultimi tre anni avrò lavorato nemmeno 7 mesi. Oggi per esempio mi hanno chiamato per lavorare a giornata: avrei dovuto attraversare mezza Roma con i mezzi per chi non mi dà più garanzie. Preferisco allora manifestare per un mio diritto: quello di essere trattato come cittadino italiano”.

Storie di persone che non solo si trovano ai margini di Roma, in quello spicchio di territorio al confine fra il XIV e XV Municipio, ma anche ai margini dell’attenzione mediatica di questi giorni riservata a Casale San Nicola. Eppure di loro nessuno parla.

Barbara Polidori

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