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Quando il calcio diventa una bestemmia

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Galvanica Bruni

nocalcio.jpgGli editoriali di VCB – Avremmo preferito non scriverlo questo pezzo, ne avevamo parlato in redazione e speravamo che Ciro Esposito ce la facesse. Ci rifiutavamo di pensare che il calcio potesse mietere l’ennesima vittima. Invece no, maledette complicazioni, maledetti cinquanta giorni di speranze smorzate, maledetto tutto.

No, questa non ci voleva davvero, ma non ce ne frega nulla del calcio stavolta, c’è talmente dolore in quest’assurda vicenda da togliere il fiato perfino a chi non s’interessa di pallone e soprattutto di pallonate come questa.

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Perché la scomparsa d’un ragazzo – che scavalca di gran lunga l’essere tifosi, l’essere gente di parte, fanatici del football o semplici astanti che scattano selfie a più non posso pur di dire “io c’ero” – è come una pallonata in faccia, di quelle che fanno male e lasciano il segno.

Che colpa ha una partita di calcio? Quella di non saper essere organizzata nei minimi dettagli. Sempre, a ogni latitudine. Pure la partitella fra amici, la più classica delle scapoli-ammogliati… quante volte manca qualcuno per fare una squadra? Quello che sta male, quello che non riesce a scappare dal lavoro e quello che domattina si deve alzare presto.

Poi cambia la scena e mancano i bus per accompagnare le squadrette di eccellenza o gli juniores in trasferta, e gli arbitri di prima categoria che fischiano per sbarcare il lunario e i genitori a inveire contro l’arbitro. Poi cambia ancora lo scenario, fra chi la vuole cotta e chi la vuole cruda, club gestiti da traffichini, novelli Zeman in panchina e pseudo funamboli del pallone capaci di giurare che “senza quell’infortunio lì… adesso starei in serie A”.

E genitori che sognano un futuro da Paperoni preferendo per i figli la conquista di una classifica cannonieri più d’una buona pagella; e mamme ornai abituate a dar del cornuto al direttore di gara pure mentre parlottano al mercato davanti a insalatine e mele ranette.

Che bestemmia il calcio, tutto fa parte del gioco, perfino i rigori non dati in serie A, i falli degli stopper e le volate lungo la fascia delle ali, e financo il morso di Luis Suarez, e chissà chi se lo ricorda che con l’Inter d’inizio anni Sessanta c’era uno che aveva lo stesso nome e lo stesso carisma senza bisogno di immedesimarsi nella macchietta di Hannibal the cannibal…

Si è dimesso il presidente della Federcalcio, ma non per la morte di Ciro Esposito. L’ha fatto per una cocente sconfitta della nostra nazionale, al secondo mondiale di fila che ci ha visto protagonisti negativi neanche fossimo la nazionale della Patagonia, dove il calcio è rappresentato solo dal sogno d’averci giocato l’inesistente Mondiale del 1942.

Povero Ciro, povera famiglia.

Claudio Cafasso

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