Home ATTUALITÀ Bruce Springsteen a Roma: serenata di sogni, sudore e speranza

Bruce Springsteen a Roma: serenata di sogni, sudore e speranza

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Grande successo nella sera di giovedì 11 luglio per il concerto che Bruce Springsteen, insieme alla sua E Street Band, ha tenuto presso l’Ippodromo delle Capannelle al cospetto di trentacinquemila spettatori entusiasti. In una serata magica, peculiare ed esaltante, il rocker del New Jersey ha regalato una delle sue migliori performance, una cavalcata gioiosa, energetica e romantica di quasi tre ore e mezza nella quale hanno trovato posto molte delle gemme della sua quarantennale carriera.

A distanza di quattro anni dalla sua ultima esibizione nella capitale, Springsteen è finalmente tornato a farci visita e non è stata una semplice visita di cortesia.

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64 anni da compiere il prossimo 23 settembre, cuore, talento, sorriso sempre aperto e energie da vendere, “l’ultimo grande eroe del rock” non si limita a timbrare il cartellino né a suonare il minimo sindacale per poi fuggire verso la tappa successiva. Scalette spesso rivoluzionate, ritmi elevatissimi, vere e proprie maratone che sforano quasi sempre le tre ore senza che ne risenta minimamente la qualità della proposta musicale, energia e sudore, speranze e sogni, voglia di vivere, di ricacciare indietro le oscurità e le trappole dell’esistenza.

Per tutto questo e molto altro, per assaporare nuovamente la magia e la grazia, per respirare ancora l’aria pulita della libertà e del divertimento, il popolo springsteeniano è una tribù nomade e seriale, è pronto a rimettersi in viaggio e a soffrire, a “sciropparsi” faticosi spostamenti e sfibranti attese davanti ad un altro stadio e ai cancelli di un altro palasport.

Roma è stato un altro capitolo di questa epopea che non ha bisogno di orpelli e trucchi che distolgano l’attenzione. Scenografia inesistente, conta solo la musica. E la musica è arrivata ai cuori dei trentacinquemila di Capannelle, ha cambiato il loro stato d’animo, ha parlato alla loro parte più intima e vera. Le luci contro le ombre, la voglia di riscatto, la necessità di trovare un posto e una strada da percorrere, di incrociare dei compagni di viaggio, di rimettersi in gioco e rilanciare i dadi.

Nella notte internazionale di Capannelle – molti, infatti, i fans provenienti da mezza Europa, oltre che da tutta Italia – si è scritto un altro capitolo memorabile della storia della musica popolare.
E, allora, andiamo a vedere come è andata questa notte di sogni, sudore e speranza; cerchiamo in qualche modo – parziale, incompleto e sfacciatamente “tifoso” – di descrivere cosa è passato dal palco al pubblico e dal pubblico al palco. Un fiume in piena, una tempesta elettrica, un ciclone benefico e senza controindicazioni.

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Come da consuetudine ormai consolidata in Italia (e non solo), lo show si apre con le commoventi note della morriconiana “C’era una volta il west”, che vengono diffuse dagli amplificatori mentre i numerosi membri della E Street Band prendono posto sul palco. Sono le 20.50 ed è finalmente finita l’attesa degli spettatori.

“Can you feel the spirit?”, domanda insistentemente Springsteen, ancora invisibile, introducendo “Spirit in the night”, una perla rara incastonata nell’album d’esordio (“Greetings from Asbury Park, NJ”, anno di grazia 1973). Subito dopo, la promessa, già mantenuta in quattro decadi di fulgidissima carriera, viene ancora una volta onorata : “il mio amore non vi abbandonerà”, canta con trasporto il boss insieme alla sua band allargata che è subito partita a tavoletta.

“My Love will not let you down”, outtake di “Born in the USA” poi – grazie al cielo – inclusa quattordici anni dopo nel cofanetto “Tracks”, precede l’energetica e liberatoria “Badlands”, un classico fra i classici, il pezzo ormai rituale dove tutti intonano il ritornello e battono le mani e nel quale si mette in evidenza il sassofono di Jake Clemons. La vita è dura, ma noi proveremo a sfidarla, troveremo un compagno o una compagna di viaggio, un viso “che non ci guardi attraverso” e combatteremo contro l’oscurità che ci minaccia ai margini della nostra coscienza.

Il primo brano tratto da “Wrecking Ball” che ascoltiamo nella notte di Capannelle è “Death to my hometown”, una canzone durissima che parla dell’America (e del mondo) peggiore, dei capitalisti e dei “ladri avidi che sono arrivati e hanno mangiato la carne di tutto ciò che hanno trovato”, di quelli, cioè, “i cui crimini sono ancora rimasti impuniti, che ora percorrono la strada da uomini liberi e che hanno portato la morte nella nostra città”.

“Primizie” della data di Lipsia di qualche giorno fa, arrivano poi (graditissime) “Roulette” – outtake di “The River”, un’altra gemma che è rimasta incredibilmente inedita per quasi vent’anni e che parla delle conseguenze di un disastro nucleare – e “Lucky Town”, un pezzo super-energetico in cui le chitarre di Springsteen e Steve Van Zandt fanno scintille, decretando il giusto tributo ad uno dei pezzi più riusciti dell’omonimo album del 1992.

È il momento delle canzoni a richiesta, delle decine e decine di cartelli che i fans delle prime file mostrano al boss. Springsteen zampetta qua e là, ne raccoglie cinque o sei. Torna sovraccarico al microfono, poi decide e mostra il primo cartello alla band.

Parte “Summertime Blues”, una delle pietre angolari del rock & roll, anno domini 1958, Eddie Cochran, la prima delle tre cover eseguite stasera. Arriva, poi, “Stand On It” – l’eccellente lato B di “Glory Days”, quando c’erano ancora i 45 giri – un omaggio appassionato alla musica di Jerry Lee Lewis nel quale la voce di Springsteen è efficacemente affiancata e supportata dalla superba sezione fiati che, insieme ai vocalists, ha trasformato la band in un’orchestra.

Dopo la divertente e ballabilissima “Working on the highway”, tocca ad un’altra perla richiesta dal pubblico. La bellissima e malinconica “Candy’s room” (da “Darkness on the edge of town”, 1978) è ancora capace di lasciare senza fiato, come del resto la successiva “She’s the One” (da “Born to run”, 1975), introdotta, come succedeva negli anni settanta, da alcuni versi di “Mona”.

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Ma le sorprese non sono finite, siamo ancora ad un terzo del concerto. Dopo la sottovalutata “Brilliant disguise” (“Tunnel of love”, 1987), mirabile trattato in musica sulla difficoltà dei rapporti di coppia – “dimmi cosa vedo quando guardo nei tuoi occhi: sei tu, baby, o solo un abile travestimento?” – è il momento della stratosferica “Kitty’s Back” (“The wild, the innocent & the E Street Shuffle”, 1973), nella quale sono ancora una volta protagonisti gli strumenti a fiato di Curt Ramm, Clark Gayton, Eddie Manion, Barry Danielan e Jake Clemons, oltre alle tastiere di Charlie Giordano e al piano di “professor” Roy Bittan.

Già appagati ampiamente dalle “chicche” che sono già arrivate, ci prende di sorpresa l’incipit di “Incident on 57th street” (ancora da “Wild & Innocent”), magistrale ritratto notturno di una New York City romantica e spietata, tenera e crudele. La sublime e delicata crudezza del brano è immediatamente temperata e riscattata dalle note gioiose di “Rosalita”, nella quale il boss è supportato al microfono da Little Steven, suo fedelissimo ed irresistibile scudiero.

Se non ci aspettavamo alcuni dei pezzi precedenti, quello che succede subito dopo ci lascia letteralmente increduli. Finita “Rosalita”, Springsteen e Steve prendono dal sottopalco uno striscione con scritto “NYC Serenade”. Lo stage diventa buio. Movimento nell’oscurità. Riaccese le luci, il miracolo accade davvero. Lungamente richiesta, soprattutto dai fans italiani, “New York City Serenade” (sempre da “Wild & Innocent”) arriva sul serio. E come arriva!

Per questa esecuzione rarissima, che rappresenta l’ennesima “prima” del tour mondiale, l’Orchestra di Springsteen si allarga ulteriormente. A supportare la melodia ci pensano, infatti, sette giovani ragazzi, gli archi dell’Orchestra Roma Sinfonietta. È un momento memorabile, il più bello e commovente di questo concerto, una magia fra le magie, una meraviglia fra le meraviglie. Il piano di Bittan è perfetto, la voce di Springsteen è delicata e carezzevole, gli archi fanno un lavoro splendido. Applausi, applausi, applausi!

Dopo questo pezzo e dopo aver presentato ad uno ad uno i giovani violinisti (“grazie mille”, dice in italiano), Springsteen propone un secondo brano da “Wrecking Ball”, ossia “Shackled and drawn” (bravissima Cindy Mizelle ai cori), prima che il rock & roll di “Darlington County” ci faccia di nuovo ballare e gioire.

Storia di amicizia e di distacchi, di persone che intraprendono percorsi diversi ma che in qualche modo non si perdono: è il momento di “Bobby Jean”, la canzone estratta da “Born in the USA” che sembra una sfida a chi mantiene gli occhi lucidi più a lungo. Noi resistiamo fino alla fine, ma quando gli ultimi versi – “ti sto solo chiamando per l’ultima volta, non per farti cambiare idea, ma solo per dirti che mi manchi, buona fortuna, addio” – si diffondono nell’aria e scompigliano i nostri cuori, una lacrima (non vista) ci scappa.

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Per fortuna la successiva “Waitin’ on a sunny day” (da “The Rising”, 2002) ci rimette in sesto, “gonfia” com’è di allegria e di gioia di vivere, oltre a presentare un altro momento rituale dello show, quello del bambino invitato sul palco a cantare il ritornello. Il giovanotto con la maglietta di Batman se la cava bene e Bruce se lo mette sulle spalle prima di restituirlo alle prime file ed applaudirlo con affetto.

Immancabile – ennesima storia di luci contro le ombre, di discese e di risalite – arriva “The Rising”, prima che l’intensissima “Land of hope and dreams” strappi applausi e commozione e si concluda prendendo in prestito alcuni versi di “People get ready”.

È questo il primo dei molti finali del concerto. Appena un attimo dopo arriva una poderosa versione di “Born in the USA”, seguita da “Born to run”, il momento dei momenti, il rituale dei rituali, con le luci tutte accese e la chitarra di Springsteen a disposizione delle mani degli spettatori delle prime file.

“Un giorno, non so quando, cammineremo verso il sole, ma fino a quel momento i vagabondi come noi sono nati per correre” cantano i trentacinquemila di Capannelle con le braccia alzate verso il cielo.

Proposta di matrimonio e tre-ragazze-tre sul palco per una “Dancing in the dark” infinita (che assolo Clemons!), e momenti di commozione per la successiva “Tenth Avenue Freeze Out”. Sui tre mega- schermi, infatti, appaiono i volti degli indimenticabili Clarence Clemons e Danny Federici, scomparsi qualche anno fa.

È il secondo finale, ma non è finita. La beatlesiana “Twist & Shout” fa ballare e cantare tutti. Springsteen presenta i componenti della E Street Band (o Orchestra), poi parte un’altra cover super-mega-danzereccia, ossia “Shout” degli Isley Brothers. Impossibile stare fermi, impossibile non divertirsi. È il terzo finale, ma non è ancora finita.

Ringraziati ad uno ad uno i componenti della band, stremato e felice, il boss, rimasto solo sulla scena, ci regala “il finale”, ossia una versione acustica e toccante di “Thunder Road”. Chitarra, armonica e una sola voce. Cuori in sospensione, applausi a non finire. La mezzanotte è passata da quindici minuti, dall’inizio dello show sono trascorse tre ore e venticinque minuti. Ventinove canzoni, e emozioni che non hanno prezzo. Grazie!

Giovanni Berti

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1 commento

  1. Impietoso il confronto con il concerto degli “Arctic Monkeys” della sera precedente, sempre a Capannelle. Una pur ottima band sul palco non è riuscita ad anadare oltre ad un compitino ben fatto, ma con un concerto privo di passione ed emozione, che snon le basi del rock. Pare incredibile che Springsteen si stia avviando verso i 64 anni….

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