Home ARTE E CULTURA “Giulio Cesare” al Globe Theatre, l’imperitura fascinazione del potere

“Giulio Cesare” al Globe Theatre, l’imperitura fascinazione del potere

Galvanica Bruni

giulio-cesare.jpgIn scena fino al 26 agosto al Silvano Toti Globe Theatre, il “Giulio Cesare” firmato da Daniele Salvo e interpretato da Giorgio Albertazzi restituisce con perizia e grande rispetto del testo (la traduzione è di Masolino d’Amico) le suggestive atmosfere e le importanti tematiche della tragedia shakespeariana. Nel cast artistico, di livello assai elevato, si distinguono l’intensa Melania Giglio, i bravissimi Gianluigi Fogacci e Graziano Piazza e l’ottima Loredana Piedimonte.

Tragedia in cinque atti, con ogni probabilità scritta e rappresentata per la prima volta nel 1599, “The Life and Death of Julius Caesar”, opera centrale nell’inestimabile produzione del Bardo, trova la sua fonte nella traduzione che Thomas North fece della “Vita di Cesare” e della “Vita di Bruto”, contenute nelle “Vite Parallele” di Plutarco.

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La brama di potere, l’anelito alla libertà che spesso conduce alla guerra civile o si risolve in una tirannide peggiore di quella che si vuole abbattere, l’incostanza e la volubilità del popolo, la retorica come strumento di manipolazione dello stesso (lo splendido discorso di Marc’Antonio), l’amicizia (fra Bruto e Cassio) e l’amore (fra Bruto e Porzia, fra Cesare e Calpurnia), il Destino, partecipe o inesorabile: Shakespeare gioca tutte le sue carte con sconcertante genialità, pennellando immagini suggestive e potenti come lo spettro di Cesare che incombe sui congiurati, le profezie dell’indovino (Elio D’Alessandro), le premonizioni di Calpurnia (Loredana Piedimonte) e gli inquietanti avvertimenti ricavati dagli auguri dalle viscere degli animali sacrificati agli dei.

Daniele Salvo – regia salda e senza sbavature – avvalendosi di collaboratori di prim’ordine, come Umile Vainieri (disegno luci), Franco Patimo (sound designer) e Alessandro Chiti (scene), regala ai personaggi della tragedia una cornice perfetta che consente al pubblico di comprenderne subito la psicologia e gli impulsi interiori prima ancora che essi vengano rappresentati dalle loro stesse parole e attraverso la reciproca interazione.

E’ la tetraggine e l’oscurità di Roma, sono le fiaccole, le torce e i bracieri che la illuminano fiocamente, sono i continui scrosci del temporale che mostrano ed evidenziano l’animo dei congiurati, i loro conflitti lancinanti (Bruto, soprattutto) e le loro ambizioni (Cassio, specialmente); sono le trenta maschere di lattice, realizzate dall’artista Michele Guaschino, che sottolineano con grande efficacia come il potere (e la lotta per ottenerlo) azzeri e cancelli l’umanità degli individui che lo perseguono o che tentano di mantenerlo.

Ottimo cast, si diceva all’inizio, e spettacolo assai convincente che non ha cedimenti per tutti i centocinquanta minuti (più intervallo) della sua durata. In particolare, la compagnia regala ai momenti più celebri della tragedia una veste magnifica che ne suggella il meritato successo.
Da brividi la scena dell’assassinio di Cesare e della celeberrima frase da lui pronunciata (“Tu quoque, Brute”), alla quale Shakespeare ha genialmente aggiunto “allora cadi, o Cesare”, con cui il dittatore sottolinea di non voler sopravvivere dopo il tradimento da parte di una persona da lui così amata.

Eccellente il monologo con il quale abilmente Marc’Antonio (il bravissimo e nostro “concittadino” di Roma Nord Graziano Piazza) manipola la folla, istigandola alla rivolta contro i congiurati nonostante l’apparente e ripetuto elogio degli stessi (“sono uomini d’onore”).
Suggestivo il momento in cui lo spettro di Cesare annuncia a Bruto (il più che convincente Gianluigi Fogacci) il suo destino (“ci rivedremo a Filippi”).

Giorgio Albertazzi, che il 20 agosto compirà 89 anni, interpreta Giulio Cesare con la maestria che lo ha sempre contraddistinto, mentre Melania Giglio (nel duplice ruolo del Destino e di Porzia) conquista tutti attraverso un canto dolente ed accorato e grazie alla sua toccante interpretazione della moglie di Bruto, della quale riesce a rendere con grande intensità e nettezza gli aspetti passionali del carattere. Una menzione particolare anche per Giuliano Scarpinato, nei panni di Lucio, il fedele servo di Bruto.

Dopo essersi quasi spellati le mani per applaudire tutto il cast (16 attori e 15 figuranti), si esce dal teatro davvero appagati, non soltanto con la convinzione che questa tragedia sia ancora prepotentemente d’attualità ma anche con un’immagine poderosa stampata nella mente: il Destino, che governava le azioni umane non senza partecipazione ai loro tormenti, dall’assassinio del dittatore viene soppiantato dallo spettro dello stesso Cesare, che non gli restituirà il posto fino a quando tutti i congiurati, e soprattutto l’amatissimo Bruto, non troveranno la morte.

“TU QUOQUE”: GIANLUIGI FOGACCI SU BRUTO

Per quanto riguarda Bruto: che cosa dire di questo “proto-Amleto”? Anche lui, come il principe di Danimarca, è alle prese con grossi problemi di coscienza, ma in Bruto la passione civile, il senso di giustizia e l’intransigenza ideologica hanno la meglio sul suo amore davvero sincero per Cesare, “il primo uomo di questo mondo”.

Ma, una volta compiuto il terribile gesto, il senso di colpa, tutto privato, non lo abbandonerà più, tanto che le sue ultime parole saranno proprio per Cesare. fogacci.jpgRispetto ad Amleto, che esita fino alla fine per compiere la sua vendetta, dubitando su quello che si sente chiamato a fare, Bruto, da buon stoico, non esita e commette un atto a lui stesso odioso ma a suo pensare necessario: la coscienza, però, lo tormenterà dopo.
Ovviamente non c’è solo questo: sono anche ben rilevati i suoi rapporti con Porzia, la moglie, e con Cassio, l’altro congiurato eccellente; uno spaccato di intimità e un rapporto di amicizia quasi morboso dove i due nobili romani, nel loro percorso fatto di omicidi, guerre e contrasti, sperimentano reciprocamente la virtù e la debolezza, arrivando ad una maggiore comprensione di loro stessi.

Un grande dramma politico, modernissimo nel quale Shakespeare ci fa vedere il lato fragile e umano dei potenti e dove la verità e la ragione non sono mai da una parte sola, ma presentate come qualcosa di ambiguo, complesso e quasi inafferrabile. Se il pubblico vivrà queste sensazioni vorrà dire che non saremo stati troppo indegni del grande poeta.

“SONO VENUTO A SEPPELLIRE CESARE, NON A TESSERNE L’ELOGIO”: GRAZIANO PIAZZA SU MARC’ANTONIO

Certo, la mente corre subito a Marc’Antonio interpretato da Marlon Brando, fino alle varie proposte del teatro più impegnato che utilizzano questo personaggio come esempio di manipolazione sociale. Non è un personaggio: è un teorema. E’ una fisicità, un modo di dire. Si compie nel lungo monologo col popolo romano: risolleva gli animi e li rivolge contro coloro che hanno perpetrato il delitto efferato dell’assassinio di Cesare.

Prima di ciò, poco a poco e anche dopo di ciò. Shakespeare ha dotato questo personaggio, non così avvezzo a parlare, di una retorica sublime, di una modernità che sconfina nelle ultime scoperte della pratica della programmazione neuro linguistica (PNL), anche se la validità scientifica di questa manipolazione di processi neurologici è tuttora in discussione. Ma, grazie a Dio, la pratica del teatro può fare a meno di tanta scienza e diventa semplicemente l’atto di coinvolgere, attraverso il popolo romano in scena, tutti gli spettatori, le loro emozioni e persino le menti.

Il nostro occhio contemporaneo conosce queste modalità retoriche del linguaggio, le ha assorbite, non le considera neanche “retoriche”. Le si vede sui mezzi piazza.jpgdi comunicazione di massa, nei volti consueti della politica, è come se ci si fosse abituati, forse anche assuefatti!! Ma la parola di Shakespeare è grande e preziosa, ha un potere vivificante, ci riconduce alla nostra origine senza bisogno della nostra coscienza. Insomma è un grande ruolo, che diventa ancor più grande nella sede del Globe qui a Roma, e con un protagonista come Albertazzi. Poter dire che Cesare lascia al popolo, ad ogni singolo individuo, fra le altre cose, anche “…i suoi frutteti appena piantati, da questo lato del Tevere…”, fa venire i brividi.
C’è una tale concomitanza di luoghi, di personaggi, di rimandi storici, di consuetudine alla Bellezza di Roma, che lo considero un mio tributo a questa grande città, che da quasi trent’anni mi ha accolto, mi ha fatto vivere della sua complessità, della sua meraviglia eterna”.

Giovanni Berti

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