Home ATTUALITÀ Trionfale – Museo della Mente, la memoria di un mondo separato

Trionfale – Museo della Mente, la memoria di un mondo separato

Galvanica Bruni

museo-della-mente.jpgA Monte Mario, sulla Trionfale, immerso nel verde del parco Santa Maria della Pietà, all’interno del VI Padiglione dell’ex ospedale psichiatrico che lì vi sorgeva e nascosto quasi clandestinamente nell’anonimato di una struttura da anni abbandonata colpevolmente al proprio degrado, è possibile visitare il Museo Laboratorio della Mente, un autentico gioiellino di retrospettiva che permette al visitatore di ripercorrere l’intera storia del complesso ospedaliero e che in questi giorni, tra l’altro, rischia la chiusura definitiva a causa della mancanza di fondi, il che sarebbe senza dubbio un terribile smacco alla memoria storica di tutto ciò che l’ex-manicomio ha rappresentato per quasi un secolo.

Una storia che coincide poi con quella di un intero quartiere, di una porzione di territorio considerata oggi uno degli snodi nevralgici del XIX Municipio e che fu inizialmente pensata e costruita proprio attorno al nosocomio ormai dismesso.

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Il museo è articolato essenzialmente come una ricostruzione ambientale degli spazi in cui i pazienti passavano le loro lunghe giornate tutte uguali, ma la sua particolarità risiede nel fatto che, oltre a presentarsi come una riproduzione scenografica, ess consiste in un vero e proprio itinerario mentale che permette al visitatore di immedesimarsi nella condizione psicologica di coloro i quali in quel posto erano, loro malgrado, relegati a vita.

Un viaggio metafisico dove è quasi possibile guardare coi loro occhi e ascoltare con le loro orecchie. Si può così tornare indietro a quegli angusti e sinistri corridoi dall’eterno odore di ammoniaca, a quegli enormi stanzoni dalle luci sempre bianche, a quelle camere coi letti a castello come fossero celle di una prigione.

Si inizia dalla Sorveglianza, il nome che veniva dato allo spazio comune in cui si svolgeva la vita collettiva della comunità, indifferentemente dal fatto che si trattasse di un salone o di un giardino delimitato da siepi e recinzioni, dove era praticamente precluso ogni contatto con la realtà esterna e persino con gli stessi altri padiglioni del complesso. Qui i pazienti venivano spogliati di ogni più elementare diritto alla privacy e all’intimità.
Anche l’espletamento dei bisogni fisiologici avveniva sotto il ferreo controllo degli infermieri, le cui mansioni erano molto più simili a quelle di custodi che non di normale personale curante.

Al termine di questo preambolo, si inizia con la visita vera e propria dei locali interni. Durante il viaggio, si è costantemente immersi in una sorta di realtà virtuale in cui la riproposizione di suoni e immagini ha come scòpo quello di creare un effetto claustrofobico, straniante e disturbato su chi vi entra.

Grazie infatti a delle moderne installazioni tecnologiche è possibile vivere esperienze sensoriali che vanno dalla visita alla cosiddetta stanza di Ames – una camera dalla forma disorta in modo tale da creare una illusione ottica di alterazione della prospettiva – alla possibilità di parlare in un microfono e ascoltare la propria voce fondersi con quella dei pazienti, oppure di osservare i propri movimenti col ritardo di alcuni secondi attraverso un enorme monitor dall’immagine stilizzata, in una sorta di continua dilatazione spazio-temporale.

Il tutto accompagnato da un’illuminazione soffusa e dall’emissione dagli altoparlanti di un brusìo indistinto che accompagna il visitatore lungo tutto il suo percorso.

Vi è poi una stanza in cui sono esposti alcuni ritratti di pazienti eseguiti negli Anni ’30 dal medico Romolo Righetti e dipinti realizzati da alcuni “ospiti” storici della struttura che evidentemente possedevano una particolare predilezione per le arti figurative.

Accedendo poi a un apposito studiolo è possibile farsi scattare una foto segnaletica secondo quello che era il rito iniziale cui erano sottoposti tutti coloro che venivano internati.

Ma che la vita lì dentro non fosse affatto un gioco appare in tutta la sua atrocità quando si arriva di fronte a quella che è una riproduzione della famigerata macchina per l’elettroshock. E qui un brivido corre lungo la schiena al solo pensiero di quanto dolore e quanta sofferenza quelle apparentemente semplici tenaglie riuscissero a provocare.

Il viaggio prosegue poi con la visita alla sala mensa, il cui particolare più sinistro è rappresentato dalla totale assenza di forchette e coltelli in quanto venivano considerati potenziali strumenti autolesionistici – al pari di cinte e lacci delle scarpe che, infatti, venivano requisiti ad ogni paziente fin dal primo giorno di ricovero.

Qui è anche possibile ascoltare gli audio con le testimonianze – in alcuni casi invero raccapriccianti – di medici e infermieri.

L’ultima tappa del tracciato prevede infine la visione del filmato che racconta l’esperienza del Padiglione 16, dove nel 1974 venne condotto un rivoluzionario esperimento che aveva come fine quello di favorire l’integrazione tra i pazienti e che aprì una tra le brecce più significative nel percorso che portò poi all’emanazione della legge Basaglia.

L’esperimento consisteva nel dar vita ad una nuova realtà in cui i pazienti venissero per la prima volta trattati come normali esseri umani, dove fossero organizzate attività di svago e creati reparti misti uomini-donne. Ma anche dove, in molti di quegli occhi fino ad allora spenti, sedati e senza il minimo barlume, si potesse finalmente scorgere un velo di felicità e di profonda gratitudine per essersi sentiti, almeno una volta, come tutti gli altri e non come dei pazzi da tener legati. Anche perchè poi, a ben vedere, “da vicino nessuno è normale”.

Il Museo della Mente è aperto dal lunedì al venerdì con orario 9-13 e 15-17. Per info 0668352927/2807/2858. Ingresso libero con libera elargizione.

Valerio Di Marco

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