Home ATTUALITÀ Auditorium – Meet In Town, un festival dal quadro più che appagante

Auditorium – Meet In Town, un festival dal quadro più che appagante

Galvanica Bruni

Ci troviamo qui a dover spendere un tot di parole sul festival Meet In Town tenutosi venerdì 22 e sabato 23 luglio all’Auditorium di Roma: due giorni di musica, o forse è meglio dire un giorno e mezzo. Nel racconto delle prossime righe, come per ogni festival al quale partecipano diversi artisti che suonano e si sovrappongono, non c’è una visione universale della manifestazione, ma la nostra, che è più che mai soggettiva viste le inevitabili scelte affrontate, specialmente nella seconda e conclusiva serata di sabato.

Per fare una valutazione complessiva – prima di concentrarci sulle singole pennellate – il quadro è tutto sommato più che appagante: va sottolineato il merito di un’organizzazione che è riuscita a pensare più in grande della passata edizione e si è sobbarcata oneri ed onori di questa scelta coraggiosa e anche inevitabile se si vede a MIT come ad uno dei festival centrali nel panorama italiano delle rassegne in musica.

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Ovviamente la scelta ha avuto i suoi risvolti negativi, sia nella suddivisione degli artisti nella due giorni, sia per quanto riguarda la gestione della seconda giornata, con un paio di mosse da rivedere. Senza spendere ulteriori parole d’ingresso, ecco che abbiamo visto.

Venerdì 22 luglio

Il cartellone di venerdì era così sintetizzabile: Primal Scream. La band nata in Scozia all’inizio degli anni 80, capitanata dall’inossidabile frontman Bobby Gillespie, era di sicuro l’unico nome in programma buono per attirare l’attenzione del pubblico e cercare di riempire platea e galleria della Cavea.

Missione riuscita a metà: dal punto di vista artistico il concerto non ha certo deluso, la performance – che ha ricalcato più o meno fedelmente le tappe di “Screamadelica”, disco che ha dato la popolarità al gruppo – è stata degna delle nostre aspettative, e non ha lasciato spazio a perplessità riguardo l’effettiva capacità di dominare la scena da parte dei britannici, che si conquistano l’invasione di palco da parte degli astanti, ai quali spetta anche l’ingrato compito di inaugurare una due giorni di incomprensioni col personale di sicurezza (controllo?) dell’auditorium.
Tasto dolente che riprenderemo nel proseguio del racconto.

Finiti Primal Scream, finito il venerdì. Senza nulla togliere allo showcase dell’etichetta Kindred Spirits di Amsterdam, è sembrato poco azzeccato l’accostamento con un live, quello di Primal Scream, che a tutti gli effetti era un evento rock, con le sonorità di Jameszoo (il più vivace), Nacho Patrol e KC The Funkaholic.

La risposta del pubblico non è stata compatta, ed era quindi evidente che buona parte degli avventori erano li per Primal Scream, nome sicuramente di spicco, ma forse poco azzeccato dal punto di vista della continuità.

Sabato 23 luglio

Tutto quello che non c’è stato venerdì lo il sabato. Il cartellone della seconda serata, com’era prevedibile, riempie l’auditorium in tutti gli spazi aperti e non: primo headliner della serata erano le francesi CocoRosie, alle quali avremmo dovuto assistere sin dall’inizio se non fosse che un dj italiano posizionato in una location meno di spicco, ha attirato la nostra attenzione grazie ad una grande energia e ad un’ottima proposta: trattasi di Digi G’alessio, nome da segnare e seguire nelle prossime evoluzioni.

Complice Digi G’Alessio, arriviamo in ritardo ma riusciamo comunque a sederci in buona posizione per assistere a venti minuti di CocoRosie: fiacco è l’aggettivo che meglio di tutti riesce a trasferire in questo resoconto le nostre sensazioni in merito al loro show.

Qui il primo rimpianto della serata (quello meno grave di tutti, il più brutto arriverà verso l’una): avendo scelto le francesi, ci sfugge il live di Gold Panda, che magari sarebbe potuto essere meno soporifero. Siccome però non c’è tempo per l’autocommiserazione, tutti di fuori perché la cavea si riempie della sfacciataggine di un duo, Gernot e Sebastian, al secolo Modeselektor.

La loro proposta, come da aspettative, coinvolge chiunque. Un’ora di scelte e selezioni divertenti, variegate come prevede la loro ricetta tradizionale, alla quale avrebbe dato ulteriore sapidità l’invasione di palco da loro auspicata ma poco gradita agli uomini in nero, che senza scrupoli ricacciano in basso gli eretici invasori. A farla da paciere è proprio il duo, che per suggellare i sessanta e passa minuti di spettacolo, fa sfogare l’impellente bisogno di ballare dei più, per poi innaffiarli col prosecco.

Scesi dal palco i Modeselektor, è il turno di Apparat and Band. Il Tedesco Sasha Ring si presenta al pubblico col suo attuale progetto, che coinvolge dei musicisti per un prodotto di matrice psichedelica, più post rock che elettronica, quindi in discontinuità rispetto alla precedente produzione.

Il tutto risulta molto gradevole: non è certo colpa sua se in scaletta finisce dietro a due scalmanati, quindi è fisiologico l’afflosciamento del pubblico. Di sicuro pero Apparat ha ancora molto da dire e speriamo di rivederlo quanto prima calcare un palco romano.

Il tempo di una sosta birre + sigarette + toilette ed è ora di prendere posto per un live da noi attesissimo, quello degli inglesi Stateless, dei quali abbiamo negli ultimi tempi consumato “Matilda”, ultimo disco in ordine cronologico. Fortunatamente riusciamo a conquistare una posizione ottimale, e ci accomodiamo principescamente tra le prime file della platea della sala Sinopoli.

In attesa dell’inizio di concerto, ci viene la brillante idea di fare una scorta di birre: ci ritroviamo fuori dalla porta della sala, col concerto iniziato e con un giovanotto aitante che ci proibisce di entrare con i bicchieri nonostante dentro, tra quelli già seduti, si riescano a contare decine di bevande.
L’algoritmo col quale è stato regolato il servizio di oggi, probabilmente è depositato insieme ai conti della banca vaticana, e resterà segreto nei secoli: per tutta la serata, non si è mai avuta l’impressione di uno staff che remasse nella stessa direzione, piuttosto sembrava un fai-da-te della security.

Senza tornarci più nuovamente, candidiamo loro per il cucchiaio di legno del MIT. Dicevamo di Stateless: aspettative anche in questo caso ripagate da una grande esibizione. I brani, presentati dal vivo, acquistano ulteriore fascino e il magnetismo del frontman bianco Chris James fanno di Stateless una già matura realtà a cavallo tra quelle più note quali Radiohead e Arcade Fire, con quel tocco “downtempo” che tanto piace agli avventori del MIT. Il nostro personale premio va a loro.

Neanche il tempo di assorbire le vibrazioni positive lasciate dagli Stateless, che scatta la delusione: ci fiondiamo al Teatro studio dove si esibisce Nicolas Jaar, probabilmente l’artista che più aspettavamo.Ci troviamo un nastro nero davanti all’ingresso: tutto esaurito lo spazio. Senza eccessive polemiche diciamo che, data la prevedibile affluenza al suo show, sarebbe stato più comodo sistemarlo in una sala più capiente.

Ci allontaniamo con l’amaro in bocca dalla banda nera che ci separa dall’ingresso, e per non perderci d’animo andiamo a riconquistare una posizione in sala Sinopoli, dove dopo poco sarebbe dovuto iniziare il live degli inglesi Lamb. Che però, con sommo gaudio, ci comunicano che è posticipato per problemi tecnici (a casa nostra semplicemente soundcheck, inspiegabilmente ancora da fare).

Ci fanno uscire tutti, non una grossa manovra. Il live poi comincia e non tradisce, la risposta sotto al palco non tarda, e tra le novità dal nuovo album (“5”) ed alcuni cavalli di battaglia, i pionieri del trip-hop oggi in versione trio, se la cavano egregiamente.

Ci stacchiamo in tempo per: recuperare le energie, avvertire la fame, prendere una birra e posizionarci al cospetto di Kode9, uno dei dj e producer più in voga nel giro della dubstep e della funky house britannica. Niente da dire sulla sua selezione: un muro di suoni compatto, mai piegato su se stesso: grime, drum and bass, 2step e via dicendo. Tutto molto ben architettato.

Con la serata che volge al termine, abbiamo tempo da investire per assistere alla proposta , l’ultima utile qui al MIT, del produttore norvegese Prins Thomas. Un ottimo modo per concludere il festival e una scelta azzeccata posizionarlo a pochi passi dall’aria aperta: la sua house a pieghe ora soul ora progressive è ineccepibile.

Ci allontaniamo dall’Auditorium consapevoli di aver assistito ad un festival pienamente sufficiente nonostante l’organizzazione non sia stata perfetta: come dicevamo all’inizio, è il prezzo da pagare per chi vuole crescere ed allargare la portata di un evento che, ci auguriamo, sarà ancora più invitante nelle prossime edizioni, perché gli auguriamo lunga vita.

Matteo Strada

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