Home ARTE E CULTURA Roma Film Fest: Yves Saint Laurent ed il suo amour fou

Roma Film Fest: Yves Saint Laurent ed il suo amour fou

Derattizzazioni e disinfestazioni a Roma

La settima giornata della V Edizione del Festival del Film di Roma è stata caratterizzata dalla proiezione di due documentari, lontanissimi fra loro, ma entrambi riusciti e convincenti: Yves Saint Laurent: L’Amour Fou, che racconta la storia del grande stilista francese attraverso la testimonianza del suo compagno di vita e di lavoro Pierre Bergè, e Facing Genocide: Khieu Samphan and Pol Pot, nel quale l’ex capo di stato dei khmer rossi continua a mostrare la sua fedeltà a Pol Pot e a negare le proprie responsabilità nel genocidio cambogiano.

Prima di parlare dei due documentari, occupiamoci di una pellicola in concorso e di un docufilm che abbiamo rivisto più che volentieri. Premettiamo subito che non ci piace stroncare i film o, più in generale, gli spettacoli: solitamente il nostro atteggiamento è quello di riconoscere il lavoro che sta dietro la preparazione e nella realizzazione di una pellicola, avendo l’intento di sottolineare la passione che viene messa dentro la narrazione di una storia, qualunque essa sia. Detto questo, per quanti sforzi possiamo fare, è davvero arduo trovare qualcosa di buono, uno spunto interessante o una trovata minimamente originale, nel film The Back firmato da Liu Bingjian, incluso nel concorso della Selezione Ufficiale e verso il quale nutrivamo una certa aspettativa. Si tratta di un lungometraggio noiosissimo e privo di carattere che, nelle sue intenzioni vorrebbe rileggere (ma poi lo fa solo incidentalmente) in chiave horror la rivoluzione maoista attraverso le vicende di un giovane uomo che, indottrinato pesantemente e torturato crudelmente da un padre sadico ed invasato quando era solo un bambino, continua a portare sulle spalle e “sulla schiena” il suo annichilente passato, metafora (mal riuscita) delle crudeli follie del comunismo cinese.

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Dopo una pausa-caffè, davvero necessaria per vincere la sensazione di assopimento derivante da questa insensata proiezione, ci consoliamo subito pensando che di lì a poco assisteremo per la seconda volta allo splendido documentario The Promise: The Making of Dakness on the Edge of Town, il film di Thom Zimny che racconta la laboriosissima realizzazione di uno dei capolavori di Bruce Springsteen e del quale abbiamo parlato due giorni fa (clicca qui per leggere la cronaca della quinta giornata del festival dominata dalla presenza del boss all’auditorium).
Dopo aver riguardato, con più attenzione e meno emotività, questo bellissimo docufilm, torniamo nella Sala Petrassi dove alle 20.30 è in programma la proiezione di Yves Saint Laurent: L’Amour Fou, pellicola firmata da Pierre Thoretton ed inclusa fuori concorso nella sezione L’Altro Cinema Extra. Attraverso le parole di Pierre Bergè, il documentario racconta la grande storia d’amore che i due uomini hanno condiviso per cinquant’anni, ripercorrendo le tappe fondamentali del loro sodalizio personale e professionale, rievocando la storia della prestigiosissima griffe YSL e tratteggiando il ritratto umano del geniale stilista francese che ha rivoluzionato la moda.

Nel 1957 il giovane Yves Saint Laurent è un ventenne allampanato, sensibile e timidissimo che, alla morte di Christian Dior, succede al suo amatissimo e grande maestro. La scelta si rivela azzeccatissima, le collezioni sono una più splendida dell’altra. Tuttavia, la collaborazione con la casa d’alta moda, iniziata quando Saint Laurent aveva solo 17 anni, termina bruscamente nel 1962 perchè il proprietario della griffe, uomo di destra che sosteneva fermamente che la Francia dovesse restare in Algeria, lo licenzia non accettando il fatto che Saint Laurent avesse evitato il servizio militare.

Nello stesso anno, Saint Laurent e Bergè, finanziati da un americano, fondano la loro casa di haute couture, dando vita ad un marchio che fornirà il guardaroba a tutte le donne del mondo “non solo per vestirle ma anche e soprattutto per regalar loro sicurezza e fiducia”. Pur essendo un intransigente sostenitore dell’alta moda, Saint Laurent sarà il primo stilista a disegnare collezioni per il prêt-à-porter.

Di pari passo con lo strepitoso successo delle collezioni e con l’aumento vertiginoso del conto in banca, la coppia riempe di opere d’arte il suo appartamento di Rue de Babylone a Parigi, acquista una splendida dimora a Marrakesh, compra una meravigliosa casa in Normandia. Tutti luoghi magnifici ed arredati con gusto raffinato, che il film mostra in tutto il loro splendore. Bergè condivide con Saint Laurent alti e bassi, la loro storia d’amore è messa alla prova dall’inclinazione alla solitudine del suo geniale compagno. Saint Laurent paga il prezzo della gloria (“il lutto del successo”) e cede all’alcool e alla droga. Bergè gli rimane accanto, poi lo lascia, ma solo per un breve periodo. Finalmente, lo stilista riesce a disintossicarsi senza avere ricadute, ma è un uomo sempre più solitario, sempre più infelice. I suoi ultimi anni sono caratterizzati dall’isolamento e dalla tristezza, i momenti di gioia si limitano alle serate di presentazione delle sue collezioni. Saint Laurent scompare nel 2008 e, dopo la sua morte, Bergè decide di vendere all’asta la collezione d’arte messa insieme in vent’anni.
Non è un film sulla moda: YSL: L’Amour Fou è un documentario bello ed intenso, malinconico e raffinato, che ci mostra con grande delicatezza e profondità una storia d’amore durata mezzo secolo e che ci fa conoscere la figura di un uomo la cui attività lo ha elevato al livello dei più importanti artisti della storia della creatività e dell’ingegno.

Cambiando decisamente tematica, la nostra settima giornata al festival termina al Teatro Studio, dove alle 22.30 è in programma la proiezione di Facing Genocide: Khieu Samphan and Pol Pot, il documentario, incluso nel concorso della sezione L’altro Cinema Extra, che rievoca uno dei (purtroppo, moltissimi) massacri che hanno punteggiato il XX secolo. Il film, attraverso una serie di interviste con Khieu Samphan, capo di stato della cosiddetta Kampuchea Democratica, e tramite le testimonianze dei parenti delle vittime del genocidio cambogiano, punta i riflettori sulla storia recente di questo martoriato paese, dove nei quattro anni in cui furono al potere i khmer rossi (dal 1975 al 1979) furono uccise quasi due milioni di persone. Samphan, che oggi ha 77 anni ed è finalmente imputato in un processo per crimini contro l’umanità, è un uomo che afferma di non aver mai saputo nulla di questo genocidio fino al 1998, anno della morte di Pol Pot. Impossibile credergli: lui era il capo dello stato e doveva per forza essere a conoscenza del fatto che si stava consumando in modo sistematico un massacro su larghissima scala (fu eliminato un quinto della popolazione).

Quando presero il potere, i khmer rossi, guidati da Pol Pot, sigillarono i confini, evacuarono le città, chiusero le scuole e le università, ordinarono deportazioni di massa in campagna con l’intento di far raggiungere alla nazione un’indipendenza economica basata sull’agricoltura: fu un suicidio economico e fu genocidio. Centinaia di migliaia di persone (uomini, donne e bambini) vennero torturate e, legate con una corda bagnata e colpite ripetutamente con un piccone o un badile per non sprecare le pallottole, trovarono la morte nei campi di concentramento (come il famigerato S 21, oggi museo del genocidio), moltissime altre morirono di fame o a causa del lavoro disumano che erano costrette a fare.
Di fronte a tutto questo, Samphan continua a non ammettre la propria responsabilità e a mostrare fedeltà a Pol Pot, che considera “un uomo dalla mente eccezionale che aveva le sue ragioni per fare quello che ha fatto”. In una delle sequenze che più ci hanno agghiacciato, l’ex capo di stato va a trovare a casa Noun Chea, il numero due dei khmer rossi, il quale, in una conversazione tra “vecchi amici”, riferendosi allla circostanza che i nipoti di Samphan vivono in città insieme ai genitori, dice che “studiare è un investimento per il futuro”. Sconvolgente e sconcertante, questo documentario, firmato da David Aronowitsch Staffan Lindberg, è un’opera riuscita che ha il merito di saper raccontare in modo chiaro e circostanziato un’altra pagina della follia e della crudeltà umana.

Giovanni Berti

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