Home ARTE E CULTURA Roma Film Fest: John Landis conquista l’Auditorium

Roma Film Fest: John Landis conquista l’Auditorium

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John Landis, il grande regista americano che ha firmato pellicole memorabili quali Animal House e The Blues Brothers, è stato l’indiscusso protagonista della seconda giornata della V Edizione del Festival del Film di Roma. Con una lezione di cinema spassosa e scoppiettante, il sessantenne filmaker statunitense ha conquistato il pubblico adorante e strabordante della Sala Sinopoli nell’ambito di una manifestazione che sta calamitando sempre di più l’interesse e la curiosità degli spettatori.

La nostra seconda giornata (la terza, se consideriamo la pre-apertura con la proiezione del documentario su Ugo Tognazzi) alla V Edizione del Festival del Film di Roma comincia intorno alle 15.15 quando sul red carpet, accolte da uno sciame di bambine festanti, sfilano le Winx. Mentre gli altoparlanti del Parco della Musica diffondono le note dell’accattivante canzone del film di Iginio Straffi, Winx Club 3D- Magica Avventura, qui presentato nella selezione ufficiale ma fuori concorso, e mentre alcune giovanissime animano una coreografia danzante, le ragazze protagoniste della pellicola, vestite con i costumi delle magiche fatine, insieme all’inteprete maschile, posano sorridenti e a lungo per i numerosi fotografi. Il lungometraggio, che è già nelle sale proprio da ieri, mostra le tre Streghe Antenate che, con l’aiuto delle Trix, riescono a rintracciare l’Albero della Vita e a rompere con un incantesimo l’equilibrio fra magia positiva e negativa. Le fatine magiche (e nostrane) tenteranno di ristabilire l’equilibrio nella dimensione magica.

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Intorno alle 16 ci spostiamo all’interno ed entriamo nella Sala Sinopoli, dove è in programma, nella sezione Occhio sul Mondo – Focus, quest’anno interamente dedicata al Giappone, il film Sakuran, una pellicola del 2007 mai vista in Italia, tratta da un cartone animato manga e firmata dalla regista Mika Ninagawa. Introdotta da Gaia Morrione, che cura questa sezione del festival, la stessa Ninagawa, che è anche una brillante fotografa, presenta brevemente la pellicola che stiamo per vedere. Siamo nel Giappone di trecento anni fa, nel quartiere del piacere di Yoshiwara, dove si trovano le prostitute e le cortigiane di alto rango. Venduta dalla madre ed entrata nella “casa” quando era ancora bambina, Kiyoha mostra fin da subito il suo carattere ribelle e la sua voglia di libertà. Ricevuta, come accadeva anche ad altre ragazzine, un’educazione diretta a farla diventare una donna di piacere ed eventualmente un’ oiran (non solo una prostituta, ma anche un’artista e un’intrattenitrice), Kiyoha diventa una giovane donna che non accetta di essere segregata nella “casa”, che aspira alla libertà e che sogna di innamorarsi, consolidando il suo carattere deciso e caparbio. Si tratta di un film raffinato ed elegante, coloratissimo, con una fotografia incisiva ed una regia sicura. I costumi sono bellissimi e sgargianti, le scenografie curate nei minimi dettagli. La colonna sonora moderna (che svaria dal jazz al tango, dal rock allo swing) si integra perfettamente con le scene che descrivono una storia di tre secoli fa e che rappresentano il carattere e le emozioni di Kiyoha, interpretata dallla bravissima protagonista Anna Tsuchiya.

Usciti dalla Sala Sinopoli, ci facciamo un giro nell’affollatissimo Villaggio del Cinema prima di appostarci nella zona della cavea per cercare di immortalare John Landis, il sessantenne regista americano al quale si devono pellicole memorabili come Animal House, The Blues Brothers, Un Lupo Mannaro Americano a Londra, Una Poltrona per Due Tutto in una Notte. Il lungo red carpet di Landis, che di lì a poco animerà un incontro con il pubblico, una lezione di cinema scoppiettante, spassosa ed applauditissima, viene scandito dalle note di 500 Miles dei Proclaimers, la bellissima rock song che è inclusa nella colonna sonora di Burke & Hare, il suo ultimo film che sarà proiettato subito dopo l’incontro. Il regista americano firma autografi, si mostra affabile, si ferma volentieri e fotografa a sua volta tutti quelli che lo intervistano e i numerosissimi fotografi.

Entriamo velocemente nella Sala Petrassi e prendiamo posto. Si respira l’aria del grande evento, la sala è stracolma, alcuni giornalisti sono in piedi o seduti per terra. Buio in sala: sullo schermo appare Michael Jackson e scorrono alcuni, leggendari, frammenti del cinema di John Landis. Il pubblico ride come se vedesse i Blues Brothers per la prima volta, applausi scroscianti. Si riaccendono le luci e sul palco, accompagnato dai critici cinematografici Antonio Monda e Mario Sesti, fa il suo ingresso John Landis, sorridente ed applauditissimo. Sullo schermo, alle spalle dei tre, passa ancora una selezione delle commedie del grande regista americano: Schlock (1973), Ridere per ridere (1977), Una Poltrona per Due (1983) e Animal House (1978), film di culto dei quali gli spettatori conoscono a memoria le battute. Il grande regista regala subito una chicca, una notizia che qualche tempo fa gli è stata riferita dal critico italiano Farina, dicendo che la musica che accompagna la mitica scena di Animal House, nella quale John Belushi ingurgita ogni tipo di cibaria, solo nella versione italiana in dvd è sbagliata, cioè è stata sostituita dai produttori “con una musica da hall di albergo” in quanto, nel frattempo, i diritti d’autore per le canzoni del film erano aumentati (la canzone, nello specifico, era Don’t Know Much About History).
Questo dimostra che, per quanto uno si sforzi, non può avere il controllo totale sulla sua opera“, conclude, divertito, il regista. Poi, a Landis viene chiesto se John Belushi sul set improvisasse, al che il regista risponde che “ad Hollywood poche persone improvvisano, Belushi conosceva bene il copione, tra di noi la comunicazione era costante ed io, mentre si svolgeva la scena, potevo continuare a dargli istruzioni, del tipo ‘muovi un occhio, mangia la gelatina’ e così via“.

Poi, si affronta il tema della tragica e prematura morte del grande attore, si domanda al filmaker statunitense se c’è ancora qualche lato non chiarito in questa vicenda. Landis risponde che Belushi era dipendente dalle droghe, che non può condannare la persona che gli ha dato la dose letale di speedball e che, in definitiva, è stato proprio lui che ha ucciso se stesso. Poi aggiunge che il mistero sulla scomparsa di Belushi persiste “solo perchè la gente non ama e non accetta le risposte semplici, prediligendo le tesi cospiratorie“. Cita come esempio di quello che sta dicendo JFK, il film di Oliver Stone che ama moltissimo ma che contiene una teoria cospiratoria a dir poco incredibile, per poi concludere: “Belushi è morto perchè era un drogato, a causa di questo molti muoiono, mentre altri se la cavano. Belushi, che era una splendida persona, è morto semplicemente a causa di questa ragione“.

Ancora buio in sala, applauditissime, vengono mostrate le clip di Thriller The Blues Brothers e, quando vengono riaccese le luci, i due intervistatori, elogiando la grande capacità di Landis di riprendere persone che ballano e che cantano, gli domandano quali sono le regole da rispettare per rendere al meglio queste situazioni: Landis, riferendosi specialmente a Thriller, ribatte che “il segreto di un buon video è una buona canzone: se la canzone fa schifo, ma il video è buono, del video non importa niente a nessuno!“, aggiungendo che “se hai a disposizione Gene Kally, Fred Astaire e Gingers Rogers o Michael Jackson, cioè degli eccezionali ballerini, puoi andare avanti con le riprese per minuti senza interrompere: i tagli continui (cut! cut! cut!) sono per riprendere la gente che non sa ballare“. A Landis viene, poi, ricordato il suo passato di attore e, suscitando l’ilarità del pubblico, il cineasta americano racconta un aneddoto legato al film Io sono Valdez, con protagonista Burt Lancaster che vestiva i panni dello sceriffo e in cui il giovane Landis recitava una particina, uscendo quasi subito di scena a causa di una morte cruenta. Il ventenne Landis disse alla madre di aver partecipato a questa pellicola ma non aggiunse altro, cosicchè quando la mamma si precipitò orgogliosamente ad assistere alla proiezione, cacciò in sala un urlo terrorizzato alla scena del sanguinoso ed inaspettato assassinio del figlio. Landis chiarisce anche di aver lavorato molto come attore in Europa alla fine degli anni Sessanta, soprattutto in Spagna dove era più conveniente girare i film western.

Sullo schermo passano le immagini delle trasformazioni di Un Lupo Mannaro Americano a Londra Thriller, che fanno da preludio alla domanda successiva: “far ridere e far paura sono due situazioni assai vicine nel suo cinema?”. Il regista, dopo una divertente gag riferita un problema tecnico nella sua cuffia per la traduzione simultanea (della quale decide platealmente di sbarazzarsi, dicendo a Monda, che traduce per suo conto, che “non c’è bisogno di sussurrare!“), risponde che “è vero: la paura e la risata sono due risposte fisiche, due spasmi. Anche il confine tra commedia e tragedia è molto labile: come dice Mel Brooks, ‘commedia’ è una donna che porta delle buste ed accidentalmente ne rovescia in terra tutto il contenuto, ‘tragedia’ sono io che mi taglio radendomi“. Poi, riferendosi alle trasformazioni appena viste sullo schermo, Landis afferma di non amare gli effetti speciali da post produzione, come accade, invece, per i film di Ridley Scott, e di preferire trovate e trucchi più semplici e più artigianali.
Dopo un’ora, l’incontro volge al termine: c’è ancora il tempo per una domanda da parte del pubblico. Uno spettatore chiede se oggi si trasgredisce attraverso il cinema e Landis risponde che “i fratelli Marx erano trasgressivi e radicali” e che “il mio cinema è un poco sovversivo“, aggiungendo però che il concetto stesso di trasgressione, dell’essere contro le convenzioni, dipende dai tempi in cui si vive e si agisce. Al riguardo, cogliendo di sorpresa tutti, ricorda un episodio accaduto qualche anno fa mentre trovava in un albergo di Trinità dei Monti e stava guardando la televisione italiana. Sullo schermo scorrevano le immagini di Colpo Grosso e delle ragazze Cin Cin: lui chiamò la moglie e le disse “vieni a vedere, c’è un quiz!“, per farla assistere a quello che aveva appena divertito lui, ossia l’esposizione del seno da parte delle ragazze subito dopo la musica: “forse per quei tempi, quella era trasgressione, ma è comunque una delle cose più buffe che abbia mai visto!“, dice ridendo Landis.

John Landis, applauditissimo, lascia il palco, che viene sgomberato in pochi minuti per consentire l’inizio della proiezione di Burke & Hare, la sua ultima, divertentissima commedia ambientata ad Edimburgo. XIX secolo, Scozia: Burke & Hare sono due eccentrici assassini che avviano un redditizio commercio di cadaveri per la facoltà di medicina, ma poi le cose si complicano.. Il film scorre lieve e veloce, zeppo di situazioni comiche e di personaggi magistralmente caratterizzati, la regia di Landis è sicurissima, originale e scattante, le interpretazioni di Tim Curry, Simon Pegg e Isla Fisher sanno rendere i personaggi al meglio…insomma ci sono tutti gli ingredienti per trascorrere assai piacevolmente un’ora e mezzo di tempo.

Terminata la proiezione, usciamo dieci minuti all’esterno, prima di rientrare nella Sala Petrassi, dove è in programma Ad Ogni Costo, il film firmato da Davide Alfonsi e Denis Malagnino e presentato fuori concorso nella sezione L’Altro Cinema – Extra. Nella sua breve introduzione che precede la visione del lungometraggio, Alfonsi dice che la pellicola è stata girata a Guidonia e che ritrae quello che potrebbero diventare le periferie se certi conflitti non venissero risolti. Il film è durissimo e spietato, è un pugno nello stomaco, rappresentando una realtà degradata e un tessuto sociale lacerato, raccontando l’assenza o la corruzione delle istituzioni e l’assoluta mancanza di valori etici.Girata quasi interamente in presa diretta e con la steadicam, la pellicola racconta la storia di Gennaro (il bravo Gennaro Romano), spacciatore di droga, e del mondo senza speranza che lo circonda. Un finale tipicamente noir, in un’opera riuscita e convincente che presenta solo un paio di sbavature narrative.

Giovanni Berti

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