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Cibo per la mente – La paga dei padroni, di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti

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libro3.jpgOggi parliamo di “La paga dei padroni” di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti, editore Chiarelettere, pp.278, 14,60 euro, e ne parliamo con Gianni Dragoni, giornalista che si occupa di economia da molti anni, inviato per il quotidiano “Il Sole24 ore” e che vive a Vigna Clara, Roma Nord. Questo saggio, scritto a quattro mani con Giorgio Meletti, scrittore e giornalista, responsabile Economia del Tg La7, è un lungo viaggio nel mondo degli imprenditori, dei manager italiani e sullo stato di salute delle nostre imprese da loro governate. Una precisa analisi dei più grandi gruppi economici, delle Aziende di Stato e delle grandi dinastie imprenditoriali vecchie e nuove. La domanda che si pongono i due giornalisti è: la paga dei padroni, detto a chiare lettere, è proporzionata al loro merito, alle loro capacità imprenditoriali e quanto sono bravi nel dirigere le loro aziende? Non si tratta solamente di un discorso morale ma anche economico: se i top manager guadagnano cifre elevate a prescindere dall’andamento delle imprese, chi garantisce gli investitori in borsa?

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Dragoni,  si può definire “La paga dei padroni” un libro di denuncia come quello di Stella “La Casta”? Si, è un libro-inchiesta sul malfunzionamento del capitalismo italiano utilizzando come punto di riferimento le retribuzioni dei super manager delle società quotate e quali sono i risultati delle aziende che guidano. La conclusione è che spesso nonostante i risultati modesti o una bassa crescita nel medio e lungo periodo delle aziende, gli stipendi dei condottieri di queste imprese crescono  comunque indipendentemente dalla performance.

Per quale motivo diversi grandi manager percepiscono uno stipendio così elevato, disgiunto dai risultati aziendali? E’ uno dei misteri del capitalismo di casa nostra. Secondo la nostra inchiesta due sono le ragioni principali. La prima è che i grandi capitalisti italiani controllano grandi aziende quotate in borsa disponendo però di pochi capitali, mettendo se stessi o i loro familiari alle guida di queste aziende e compensano con elevati stipendi quello che è il basso la-paga-dei-padroni-copertina-jpg.jpgrendimento delle aziende, cioè il modesto dividendo generato dagli utili di queste società. La forma più corretta di remunerazione del capitalista è il risultato dell’azienda, quindi attraverso gli utili, ma se questi utili sono bassi o come avviene spesso in Italia, gli imprenditori controllano solo una piccola porzione del capitale o perché c’è una serie di scatole cinesi o perché ci sono patti di sindacato in cui ognuno  sorregge un altro, alla fine se c’è un utile la quota da distribuire a ciascuno è molto bassa e quindi con elevati stipendi questi signori si ripagano degli utili bassi che gli arriverebbero attraverso i dividendi. L’altra ragione è che questi imprenditori chiamano accanto a se manager estranei alla cerchia familiare, ma sempre legati da relazioni di fiducia. Secondo ricerche effettuate da istituti universitari, che abbiamo citato nel libro, la dote principale che viene richiesta a questi manager non è la bravura ma la fedeltà e l’obbedienza e quindi l’elevato compenso è una gratifica per questa obbedienza. In sostanza è come se i capitalisti italiani lavorassero a stipendio fisso, molto alto anziché rischiare in base all’andamento della società e agli utili prodotti dalla gestione.

Com’è la situazione sotto questo punto di vista in Europa e negli Stati Uniti? L’Italia non è un’eccezione a quanto avviene negli altri paesi. Negli Stati Uniti gli stipendi dei top manager raggiungono dimensioni anche molto superiori a quelle italiane. Abbiamo notato che negli USA spesso chi sbaglia paga e talvolta se c’è un fallimento, una bancarotta può finire in prigione. Questo non avviene in Italia dove spesso chi sbaglia riceve un premio, ad esempio una ricca buonuscita per lasciare l’azienda e ritirarsi in silenzio. Nel libro ci sono molti esempi di queste situazioni con nomi e cognomi.

E’ vero che spesso alcuni manager compaiono in più consigli di amministrazione, anche di gruppi che teoricamente dovrebbero essere in concorrenza? Questo avviene soprattutto nel settore bancario, assicurativo e finanziario.

Scorrendo il saggio si ha la certezza che la crisi economica nel nostro paese stia facendo scomparire il ceto medio e che viviamo in un modello a “caste chiuse”, dove non servono più competenza e capacità ma fortuna e conoscenze. E’ una definizione calzante? Condivido questa definizione. Il capitalismo italiano è un sistema autoreferenziale nel quale il merito e i risultati sembrano venire, salvo qualche eccezione, in secondo piano rispetto alle capacità di avere relazioni e di essere fedeli ai nomi storici o ai grandi banchieri del nostro sistema.

E’ vero che il capitalismo italiano non è più governato dal mercato, che le posizioni di comando rispondono a logiche di potere, di alleanza familiare, di sostegno reciproco con i leader politici e tra gli stessi appartenenti al ristretto gruppo di uomini che governano le imprese. Più che una casta si può parlare di oligarchia? Si tratta di posizioni di potere costruite nel tempo dalle grandi famiglie nel cosiddetto “salotto buono” che continua a governare molte imprese anche quando non ha più le capacità o i meriti per farli crescere. Nel sistema bancario – finanziario invece anche le relazioni politiche hanno aiutato alcuni banchieri ad emergere e a rimanere a galla.

Il saggio si chiude con il capitolo “Questioni di stile” in cui viene citata anche l’imprenditoria “sana”, quella che il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, dice che genera ricchezza “investendo, innovando, rischiando”. Ci vuoi fare qualche esempio? Tra gli esempi minoritari di situazioni positive c’è l’inversione di tendenza dei conti della Fiat guidata da Sergio Marchionne, un manager del quale tutti conosciamo l’entità dello stipendio che è comunque elevata, circa sei milioni di euro ma se li merita per l’ottimo lavoro che sta svolgendo. Altri casi corretti si rintracciano in medie aziende e c’è anche il caso positivo di Andrea Pininfarina, un imprenditore purtroppo scomparso in un incidente stradale nell’Agosto dello scorso anno. L’azienda di famiglia è da tempo in forte difficoltà e Pininfarina che la guidava aveva uno stipendio molto basso, cinquecento mila euro, rispetto a molti suoi pari che ottengono comunque scadenti risultati.

Hai in progetto un nuovo libro-inchiesta? L’accoglienza favorevole di questo libro è uno stimolo per noi per progettare altre iniziative ma al momento siamo impegnati nella promozione di questo libro. C’è comunque la voglia di andare avanti.

Alessandra Stoppini

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